Martedì grasso: ecco la nostra… “sfilata”!

O Fallo, Fallo,

Se bevi con noi, alla mattina, dopo la sbornia,

tracannerai una coppa di pace!

Lo scudo rimarrà appeso sopra il camino.

(Aristofane, Acarnesi, 276-279)

Mimetizzata con nonchalanche tra tante altre kylikes (coppe) attiche in una vetrina al secondo piano del MAF ce n’è una, a figure nere, piccolina e apparentemente anonima. A guardarla bene, però, non può non suscitare un sorriso: su entrambi i lati gruppi di uomini portano in processione un enorme fallo pieno di occhi. Sul lato principale il fallo è issato su un supporto portato a spalla da un gruppo di uomini, e nonostante la sua forma inequivocabile, termina con una testa equina con tanto di orecchie, redini e ornamenti. A cavalcioni del fallo sta un enorme satiro, a sua volta cavalcato da una figuretta che suona il corno e lo sprona con un frustino.

Sull’altro lato la scena è più o meno la stessa; sul supporto, sopra il fallo, c’è una figura umana enorme e grottesca, con la pancia prominente. In entrambi i lati, sullo sfondo, sono dipinti tralci di vite, a indicare il contesto dionisiaco in cui si svolge la scena.

Dalle fonti sappiamo che ad Atene, nel mese di Poseidon, nel periodo corrispondente a fine dicembre inizi gennaio, si svolgevano le feste Dionisie rurali, nell’ambito delle quali un po’ in tutta l’Attica si tenevano cortei fallici, con grandi simulacri portati in processione (la phallophoria, appunto, da phallos e phero, portare). Il momento culminante della festa è proprio quello in cui il grande simulacro del fallo (dalle sembianze equine per il processo della apotheriosis, la trasformazione in animale che carattrizza le creature dionisiache) viene portato in processione, quello a cui si riferisce il protagonista della commedia di Aristofane sopra citata. Il simulacro sarebbbe stato un tronco di legno con il glande modellato in cuoio o scolpito in legno di fico (particolarmente morbido), come quello che Dioniso avrebbe scolpito da sé, dopo essere risalito dagli Inferi, per utilizzarlo in un rituale mistico.

L. Alma-Tadema, “Una dedica a Bacco” (fonte)

L’origine di queste celebrazioni sarebbe da rintracciare, secondo quanto dice uno scolio* agli stessi versi degli Acarnesi, in una espiazione imposta da Dioniso agli abitanti dell’Attica, che non avrebbero accolto con il dovuto riguardo l’introduzione del suo culto nella regione. Per questo li avrebbe puniti con una malattia, probabilmente il priapismo, per guarire dalla quale avrebbe ordinato di costruire privatamente e pubblicamente grandi falli in suo onore. La coppa del MAF, datata alla metà del VI sec. a.C., è l’unica raffigurazione dipinta per ora nota di queste scene.

La prima edizione italiana de “Gli Acarnesi”, risalente al 1545 (fonte)

Durante il trasporto del simulacro in processione venivano intonati canti e improvvisati scherzi e oscenità; secondo Aristole sarebbe da questi versi che discende niente meno che il genere della commedia. Ad essa sembra rimandare direttamente anche la figura panciuta che sovrasta il fallo nel lato B della coppa: essa somiglia infatti a un comasta, (partecipante agli sfrenati rituali dionisiaci) e al costume del personaggio caratteristico della Commedia Antica, con pancia pronunciata e natiche prominenti.

Con questo approfondimento, così poco serio e al contempo denso di significati storici e antropologici, il MAF vi augura buon Carnevale, e…

“…Chi vuol esser lieto sia!”

* scolio: le note che gli studiosi tardi avevano apposto a margine dei testi della letteratura classica, trascritte poi nei codici medievali, attraverso cui sono giunti fino a noi.

La favola di Amore e Psiche

“Erant in quadam civitate rex et regina” (C’erano una volta in una città un re e una regina)

Apuleio, Metamorfosi, IV, XXVIII

 

Così cominciano le favole, anche quelle vecchie di quasi duemila anni. E proprio queste parole avrà forse declamato chi avrà stretto e srotolato tra le proprie mani il papiro di cui un frammento è giunto fino al Museo Egizio di Firenze, mentre vi tracciava un’illustrazione della favola di Amore e Psiche, raccontata magistralmente da Apuleio ne “Le metamorfosi”.

Il frammento con Amore e Psiche (fonte)

Racconta la storia che Psiche, principessa dalla incredibile bellezza divina, fu destinata dall’invidia di Venere a un matrimonio infelice, a cui la sottrasse Cupido, invaghitosi di lei. La fanciulla, trasportata in un palazzo splendente dal vento Zefiro, era destinata a non conoscere mai il proprio amante, che la visitava solo di notte sparendo prima dell’alba. Venute a conoscenza del suo segreto, e invidiose della sua ricchezza e felicità, le sorelle le avrebbero però instillato il dubbio di essere la sposa di un mostro destinato ad ucciderla, convincendola a rompere la promessa fatta al misterioso amante e a spiarlo nel sonno alla luce di una lampada. Mentre la lucerna rivela a Psiche la vera identità di Cupido che giace addormentato nel letto, uno schizzo di olio lo sveglia e il dio dell’amore scompare lasciandola da sola, nella più cupa disperazione. La giovane dovrà affrontare quattro terribili prove inflittele da Venere per cercare di redimersi, e proprio al termine dell’ultima, cadendo vittima ancora una volta della propria curiosità, vanifica gli sforzi fatti e cade addormentata in un sonno simile alla morte. Ancora una volta è Cupido che, mosso dall’amore di cui lui stesso è vittima, la salva e ottiene da un benevolo “nonno Giove” il permesso di sposare la fanciulla, resa immortale da una coppa di ambrosia, in uno sfarzoso ricevimento celeste.

La celebre versione di Amore e Psiche di Canova, conservata al Louvre (fonte)

Il papiro del MAF (PSI VIII 919), datato al II sec. d.C., appartiene ad una ristretta serie di documenti simili, provenienti da Ossirinco, che vengono riconosciuti come “fogli di bottega”, ovvero schizzi preparatori per illustrazioni forse più grandi. Il formato di questi disegni tracciati semplicemente ad inchiostro, infatti, non è compatibile con le dimensioni delle illustrazioni che accompagnavano i testi, rapportabili in genere all’ampiezza delle colonne di scritto.

Nell’immagine, come nel racconto di Apuleio, i due sono poco più che bambini; Psiche, che stringe in mano un oggetto (forse proprio la lampada?) ha ali di farfalla (simbolo per antonomasia dell’anima e della metamorfosi, e designata dalla stessa parola greca psyché) e Amore ali piumate. La metafora dell’anima come essere volante (uccello, farfalla o falena) viene da lontano, così come alato è anche l’amore, che stringe quasi sempre una torcia, simbolo della contemplazione della bellezza e del fuoco della vita. Così i due sono rappresentati anche su due cammei in sardonica appartenuti alle collezioni medicee ed esposti al MAF: nel primo addirittura Amore, con la sua fiaccola, tormenta Psiche, mentre la trascina per i capelli… Le vere pene d’amore!

Cammei conservati al MAF. Amore tormenta Psiche con una fiaccola, tirandole i capelli (fonte) (epoca augustea o XVI sec.) e Amore e Psiche abbracciati

La favola di Apuleio è da leggere come un’allegoria di ciò che l’anima umana, deve superare e imparare per ottenere la propria redenzione: Psiche perde a causa della sua naturale curiosità l’originaria condizione di beatitudine, e soltanto attraverso una lunga serie di travagli, una maturazione interiore e l’intervento della divinità (Amore) potrà ottenere il riscatto finale.

Amore e Psiche, II sec. d.C., Firenze, Galleria degli Uffizi (fonte)

Un racconto complesso, nutrito di simboli e teorie filosofiche, che però ancora oggi incanta come solo una favola sa fare. E con questa interpretazione più leggera e spensierata il MAF vi augura buon San Valentino!

I kouroi Milani… prima di Milani!

Il 26 gennaio del 1854 nasceva a Verona il primo Direttore del Regio museo archeologico di Firenze, Luigi Adriano Milani. In occasione del compleanno di uno degli artefici dell’attuale Museo archeologico di Firenze vogliamo raccontarvi una storia poco nota, legata ai kouroi che ancora oggi portano il suo nome, attraverso le parole degli stessi protagonisti (qui e qui altri approfondimenti).

Luigi Adriano Milani seduto sulla base del tumulo di Casale Marittimo nel Giardino del Museo Archeologico di Firenze

Le due statue dette Apollo e Apollino furono legate indissolubilmente al nome di Luigi Adriano Milani da Antonio Minto, suo successore alla guida del museo, che gli attribuì il merito del riconoscimento dei due marmi greci e il conseguente acquisto dalla collezione di Fabrizio Briganti Bellini a Osimo. Ma come erano finite le due statue in questa collezione privata?

I due kouroi furono rinvenuti probabilmente tra il 1656 e il 1691, in un terreno poco fuori Osimo, di proprietà della mensa vescovile, in un’area popolata già dall’età del Ferro e nella quale si colloca anche una villa romana tardo-repubblicana. La loro prima apparizione risale al 1741, quando il giovane erudito Annibale degli Abbati Olivieri , andando a far visita all’amico monsignor Pompeo Compagnoni, vescovo di Osimo, le vide nella galleria che costeggiava il piacevole giardino del palazzo vescovile. Immediatamente pensò che fossero molto antiche, simili alle statue degli egizi per la rigida postura. Ripartì da Osimo, ma per molto tempo i due fanciulli rimasero impressi nella sua memoria tanto che quaranta anni dopo, quando ormai era un affermato studioso, volle cercar di scoprire qualcosa di più su quelle statue. Si risolse allora a chiederne notizia, e anche un disegno, a Luca Fanciulli, teologo e canonico della cattedrale osimana. Ricevendo la lettera dell’illustre studioso e mecenate pesarese al Fanciulli dovettero tremare le ginocchia. Di queste statue, infatti, non c’era traccia.

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L’Apollo Milani e il disegno inviato dal Fanciulli all’Olivieri

Pian piano il sacerdote indagò e ispezionò tutti i sotterranei e i nascondigli del palazzo vescovile fino a ritrovare i  …rottami di dette statue in un buco di stanza che si stentò ad aprire… e provvide dunque a ripulirle per la polvere e altre sozzure… . Non pago, cercò di capire come mai due statue così belle fossero finite lì. Scoprì, dunque, che venne in testa ad un canonico di farsene padrone; onde accordatosi col Vicario Capitolare di notte tempo le fe’ portar via, e perchè la cosa restasse più occulta, furon fatte passare per la Cattedrale poste sopra due barelle e avvolte con alcune coperte…ma poi sapendosi ch’erano state portate via, ne fu avanzato ricorso a Monsignor Tesoriere, il quale ordinò che si riportassero all’Episcopio nel solito sito, biasimando altamente il pensiero che fu detto avevasi di collocarle nell’atrio del Seminario. Il principale sospettato dello spostamento così rocambolesco è Stefano Bellini, all’epoca rettore del Seminario ospitato nel Palazzo Campana. L’iniziativa fu evidentemente giudicata sospetta e per prevenire altre intemperanze da parte del Bellini, che continuando ad aver la stessa sete (di farsene padrone), e godendo la grazia di Sua Eminenza gliene ha fatta più volte istanza per averle; ma neppure ha avuto il merito di sapere il sito dove stanno. A ben guardare la grazia di cui godeva presso il nuovo vescovo Guido Calcagnini non doveva essere così grande se il Vescovo fece portar via di là le dette statue senza far penetrare ad alcuno dove l’avesse poste costringendo anni dopo il Fanciulli ad una caccia al tesoro per ritrovarle.

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Fotomontaggio che riunisce l’Apollino con la sua testa, realizzato da M. Iozzo in collaborazione con F. Guerrini

Non furono spostamenti indolori: durante il primo tentativo di furto le statue letteralmente persero le teste! Quella dell’Apollo fu poi ricongiunta, mentre quella dell’Apollino, al quale erano state rotte anche le braccia, è rimasta nascosta fino in tempi recentissimi all’interno della collezione di famiglia dei Bellini. Il costernato Fanciulli scrive infatti all’Olivieri: Mi ricordo …benissimo d’averla veduta anni sono quando aveva la testa… ma adesso …manca la testa; e mi vien detto che fu portata via quando seguì il furto e fu fatta divenire acefala quando si dovette restituire insieme all’altra per ordine del Monsignor Tesoriere

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I due fratelli Bellini: a sinistra il vescovo Stefano, a destra Ubaldo

La spregiudicatezza dei due non sfugge al Fanciulli, che tiene a precisare che la statua fu fatta divenire acefala, insinuando dunque una rottura intenzionale, finalizzata all’impossessamento almeno della testa della statua. Passano ancora gli anni, ma Stefano Bellini e il fratello Ubaldo continuano a inseguire le due statue per la loro collezione. Per chiarire meglio l’attitudine familiare al collezionismo dei due fratelli sono eloquenti le parole di Augusto Vernarecci, canonico e studioso  locale, riguardo al patrimonio della città di Fossombrone: “… fu fatale pe’ monumenti forosempronesi che dal 1799 al 1808 fosse vescovo di Fossombrone mons. Stefano Bellini d’Osimo: giacchè il fratello di lui, Luigi (Ubaldo), appassionato antiquario, spinto a spadroneggiare, trasportò nel Museo di famiglia ciò che di meglio trovossi in quegli anni in Fossombrone” (A. Vernarecci, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri).

Nel 1806 il cardinale Guido Calcagnini di fronte all’ennesima richiesta da parte dei due, per i quali il possesso delle statue non è se non vagheggiato, non posseduto chiede una relazione al conte Pietro Alethy sulle statue.

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Lettera del 4 ottobre 1806 con la relazione del conte Pietro Alethy

Il conte non usa mezzi termini: quanto a me io mi farei scrupolo di dar loro quello che non può esser nelle loro mani che per breve età; e che mutando poi di possessione, facilmente muterebbe luogo, e verrebbe a perdersi per Osimo. Auspica invece che le statue vengano donate alla città, della quale illustrano la storia e l’antichità.  La cessione è nuovamente bloccata e Ubaldo Bellini risponde piccato, minimizzando il valore delle sculture per la storia della città, ma quale valore riceverà la città nostra da un marmo ritrovato in una campagna, del quale ignoriamo perfino il soggetto rappresentato… e addiritura  il numero! Una e non due sono le statue; giacchè una di esse (l’Apollino) non può nominarsi tale, non essendo altro, che un frammento senza capo, senza braccia, e senza gambe.

Calcagnini resiste, non così il suo successore, il cardinale Castiglioni, che probabilmente nel 1808 cede le statue ai Bellini, che le trasferiscono nel palazzo di famiglia, di fronte al Vescovado. Nel 1901 i due kouroi si persero per Osimo: Luigi Adriano Milani, riconoscendo immediatamente l’antichità e il valore delle due statue, le acquistò dall’erede dei fratelli Bellini portandole a Firenze, realizzando così i timori espressi dal conte Alethy quasi un secolo prima.

I PROTAGONISTI

Annibale degli Abbati Olivieri (1708-1789): nobiluomo pesarese compì studi Bologna, Pisa e Urbino. I suoi interessi abbracciarono tutti i campi dell’antiquaria e i suoi scritti di archeologia e numismatica lo portarono ad avere un ruolo di primo piano tra gli eruditi del tempo. Scrupoloso studioso, fu anche mecenate della sua città natale Pesaro alla quale donò la sua ricchissima biblioteca e la sua collezione di antichità.

Luca Fanciulli (1728-1804): canonico e teologo della Cattedrale di Osimo. Studiò presso il seminario Campana dove in seguito insegnò teologia. Fu vicario generale del vescovo Compagnoni, del quale fu anche esecutore testamentario. Autore di numerosi scritti si interessò soprattutto delle memorie sacre e profane di Osimo.

Stefano Bellini (1740-1831): sacerdote, rettore del seminario Campana, in seguito vescovo di Fossombrone e Recanati, collezionista di antichità.

Ubaldo Bellini (1746-1842): sacerdote, fratello di Stefano, umanista e numismatico.

NB: tutti corsivi colorati sono tratti dalle missive, dalle opere e dai documenti d’archivio

Per approfondire:
M. Landolfi-G. de Marinis (a cura di), Kouroi Milani. Ritorno ad Osimo, Catalogo della mostra 25 novembre 2000-30 giugno 2001, Roma 2000.
M. Luni (a cura di), I Greci in Adriatico nell’età dei kouroi, Atti del convegno internazionale, Osimo-Urbino 30 giugno-2 luglio 2001, Urbino 2007
M. Luni-M. Cardone, I Kouroi Milani ad Osimo tra Seicento e Settecento, Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, IX-4, 1998, pp. 669-706.

Appuntamenti del nuovo anno al MAF

Con l’inizio del nuovo anno, continuano gli appuntamenti con il ciclo di conferenze del giovedì che ci accompagneranno fino a giugno.

Inizieremo giovedì 16 gennaio, brindando al nuovo anno con la conferenza del prof. Luigi Donati, che ci parlerà del simposio nel mondo greco e in quello etrusco, mostrandoci come i due popoli interpretavano questa importante cerimonia.

INVITO DONATI corretto

Proseguiremo poi con altri sei interessanti argomenti

conferenze

Vi ricordiamo che l’accesso alle conferenze è gratuito e non occorre prenotazione.

Continuano anche le domeniche gratuite al museo. Ogni prima domenica del mese sarà possibile visitare il MAF con biglietto gratuito. In queste occasioni non è possibile prenotare il biglietto di ingresso. Non dimenticate che l’orario di apertura domenicale è dalle 8.30 alle 14.00.

Invito al publico

Affrettatevi, infine, a visitare la mostra “Mummie. Viaggio verso l’immortalità”, attualmente in esposizione nel salone del Nicchio. Avete ancora poche settimane, la mostra chiuderà domenica 2 febbraio. 

La mostra è aperta negli stessi orari del museo ed è compresa nel prezzo del biglietto di ingresso.

Ci metteremo subito al lavoro per la prossima mostra “Tesori dalle Terre d’Etruria” che sarà inaugurata nei prossimi mesi. Verrà esposta una collezione storica, con variegati reperti, tra cui splendide oreficerie e bronzi, oltre a numerosi e importanti vasi figurati greci e in bucchero. Continuate  a seguirci per saperne di più!

 

Capolavori di emozioni: gli auguri senza tempo del MAF!

Qualche volta i reperti del nostro museo i regalano emozioni inattese:

spesso ci capita di vedere i visitatori camminare per le sale del museo in maniera quasi distratta e restare poi letteralmente folgorati girando un angolo o attraversando una porta e trovandosi di fronte a opere particolarmente stupefacenti.

La Chimera certo, il Vaso François (sempre più grande di quanto ci si immagini vedendolo in foto), ma anche l’Idolino di Pesaro o la Testa di cavallo Medici-Riccardi che dalle loro postazioni ci offrono splendidi scorci del Palazzo della Crocetta.

I grandi bronzi, tra le opere più apprezzate del MAF

Anche reperti meno noti, ma molto particolari spesso sono oggetto di stupore, come la fibula Corsini o il ramaiolo con le manine.

Talvolta accade anche che qualcuno, per il suo personale vissuto, si commuova fino a piangere di fronte a un oggetto particolarmente amato, talaltra che torni espressamente a trovarlo come fosse un vecchio amico.

presutti

È proprio quanto è successo qualche giorno fa, quando questa signora è tornata a vedere l’oggetto della sua tesi discussa luglio del 1950. All’epoca le fu concesso addirittura uno spazio apposito al di fuori delle sale del museo, per studiare nei minimi dettagli il reperto!

In tempi più recenti, invece, il vaso François, ancora nella sua vecchia collocazione, ha folgorato uno studente di liceo, che poi, iscrittosi all’università, ha voluto studiarlo di nuovo nella sua tesi di laurea!

 

Due storie tra tante, e sicuramente più comuni di quanto possiamo sospettare, dovute al fascino che ancora oggi i capolavori senza tempo esercitano su tutti noi; due storie che ci sono sembrate il modo migliore per ringraziare tutti gli oltre 76.000 visitatori che nel 2019 hanno attraversato le sale del MAF, con occhi curiosi, voraci, nostalgici o assonnati. Vi aspettiamo ancora e ancora, cari visitatori. E vi facciamo i nostri migliori auguri per il nuovo anno!

 

 

 

 

Sul carro di Kenamun: un viaggio lungo 3500 anni

Più o meno l’idea di chi, tremilacinquecento anni fa, depose questo carro di legno -smontato- nella tomba del fratello di latte del faraone Amenofi II (1425-1397 a.C.) doveva essere quella: il carro avrebbe continuato a viaggiare per l’eternità, nel regno di Osiride, rincorrendo gli animali da cacciare con la guida esperta del suo proprietario Kenamun. E il carro in effetti ha viaggiato a lungo, attraverso secoli e millenni, ha solcato il Mediterraneo sulle navi che trasportavano il bottino della spedizione ottocentesca di Champollion e Rosellini e ancora oggi lo possiamo ammirare, perfettamente conservato nonostante la fragilità dei materiali che lo compongono, nelle sale del Museo Egizio di Firenze.

Il clima caldo e secco dell’Egitto ha infatti consentito la conservazione di materiali organici quali legno, avorio, e persino la corteccia di betulla che era stata utilizzata per i rivestimenti di tutti i giunti; solo le cinghie in cuoio che vediamo oggi sul pianale e sul timone sono un restauro ottocentesco, basato comunque sui frammenti di cuoio rinvenuti insieme al carro.

Disegno ricostruttivo del carro e confronto con una pittura, dalla prima pubblicazione dei materiali fatta da Rosellini

Il carro, realmente utilizzato dal proprietario, come dimostra l’usura di alcune sue parti, è di produzione egiziana e non straniera, come si ritenne al momento del rinvenimento, ed è confrontabile con i carri di Tutankhamon conservati al museo del Cairo. La sua struttura dimostra una progettazione estremamente avanzata, che consentisse la massima velocità, resistenza e contemporaneamente il massimo comfort di guida. Il pianale poggiava su una rete di corregge di cuoio intrecciate in modo da ammortizzare la corsa sullo sterrato; le ruote, con soltanto quattro raggi, sono leggerissime e senza cerchioni (se li avevano, probabilmente erano anch’essi di cuoio), i legni che compongono le varie parti sono diversi a seconda delle loro specifiche qualità e alcuni addirittura fatti venire appositamente da fuori l’Egitto.

Dettagli del pianale, della ruota e del giogo

Su questo mezzo potevano salire fino a due persone, in piedi (l’auriga e il proprietario che impugnava l’arco, oggi appoggiato sul pianale), e doveva essere trainato da una coppia di cavalli di piccola taglia, alti al massimo 120 cm al garrese: gli antenati dei nostri pony, insomma.

Un confronto con un mezzodel tutto analogo, sebbene molto più tardo, si trova nel c.d. “rilievo dei mestieri”, conservato poco distante dal carro sempre nel Museo Egizio di Firenze; nel rilievo sono raffigurati diversi artigiani al lavoro, e nell’angolo in basso a destra si vede proprio un artigiano intento nella rifinitura di un carro a due ruote!

Il rilievo dei mestieri, XXVI dinastia, 664-525 a.C.

Kenamun, il cui sarcofago è stato recentemente identificato nei depositi del Museo di Firenze, ha una storia particolare; la sua mummia, danneggiata dall’acqua nel trasporto dall’Egitto a Livorno, fu infatti lasciata a Pisa, dove fu sbendata e dove è stato ritrovato lo scheletro ripulito, conservato nel museo di Calci. Kenamun, allattato dalla stessa balia che aveva nutrito Amenofi II, ricopriva la carica di Gran Maggiordomo del Re ed era un personaggio molto influente a corte, anche se poi cadde probabilmente in disgrazia, come dimostra l’avvenuta distruzione nella sua tomba del suo nome e della sua figura. Le iscrizioni sulla tomba tuttora ricordano “il cocchio che Sua Maestà gli diede come segno del suo favore” e che egli volle con sé nella vita eterna, proprio quello che possiamo ammirare ancora oggi nel nostro museo.

La testa (fonte) e il sarcofago di Kenamun (fonte)

E se volete sentire il racconto dalla voce dello stesso Kenamun… questo è il link al video realizzato dall’Università di Pisa in occasione della mostra a lui dedicata nel 2014, “L’undicesima mummia”. https://www.youtube.com/watch?v=Iu5JpFndpBY

 

 

L’indispensabile Efesto: storia del dio che cadde dall’Olimpo

Non è potente come Zeus né prestante come Ares, né risplende come Apollo. Eppure, senza di lui, Zeus non potrebbe scagliare i suoi fulmini e il sole non compirebbe ogni giorno il suo percorso nel cielo sul suo carro alato; e gli dei gli sono così grati, che la sua sposa è nientemeno che Afrodite.

Efesto nella versione Disney (fonte)

Efesto è figlio di Zeus ed Era (o, secondo Esiodo, della sola Era, che lo avrebbe concepito da sola per vendicarsi dei molti tradimenti del marito); è il dio artigiano, creatore delle case e delle armi degli dei, di automi e marchingegni fantastici a cui dà vita nella sua fucina, immaginata nell’isola di Lemno o nelle profondità dell’Etna. Nonostante questo, Efesto è confinato ai margini del dorato mondo celeste: è continuamente oggetto dell’ilarità divina perché è storpio (nelle società primitive era artigiano chi era inabile alla caccia e alla guerra!), ed è l’unico dio che subisce l’onta di una rovinosa caduta dall’Olimpo, durata addirittura un giorno e una notte. Egli secondo Omero sarebbe stato scaraventato giù in un impeto di rabbia da Zeus, poiché in una lite tra i genitori aveva parteggiato per la madre, o, secondo Esiodo, dalla stessa Era, che non sopportava l’idea di un figlio nato gracile e sgraziato. Per vendetta Efesto invia alla madre, con la scusa di una riappacificazione, un trono magico che la imprigiona non appena seduta, tanto che Zeus promette Afrodite in sposa a chiunque riesca a liberarla. Soltanto Dioniso, con le lusinghe del vino, risce a convincere Efesto a tornare sull’Olimpo e liberare la madre.

Vaso François: Efesto riaccompagnato all’Olimpo su un mulo trainato da Dioniso. Afrodite, davanti, lo aspetta.

Proprio questo è al centro di uno dei fregi sulla pancia del vaso François, sul retro: mentre Ares assiste alla scena, scornato per non essere riuscito a liberare Era e per dover subire la beffa di Vedere la sua amata Afrodite andare in sposa a uno storpio, Efesto fa il suo ingresso trionfale sull’Olimpo, accompagnato dal corteggio dei satiri di Dioniso. Ingresso trionfale, sì, ma a dorso di mulo anziché su una quadriga, come di solito fanno gli dei: non dimentichiamo infatti che si tratta pur sempre di un emarginato, come il calamo impietoso del pittore Kleitias ricorda anche rimarcando la sua zoppia. I piedi del dio, infatti, visibili entrambi sotto la pancia del mulo, sono storti e posti in maniera innaturale.

Efesto al centro della coppa collocata di recente al MAF

Ben più regale è invece l’Efesto rappresentato sulla coppa attica a figure rosse che recentemente ha preso il posto, nella vetrina, di quella momentanamente trasferita al Metropolitan museum of Art di new York. Qui il dio, è assiso su un trono semovente (alato e con le ruote), forse costruito proprio da lui come il carro alato utilizzato per trainare il sole nel cielo. Questa interessante presentazione del dio, che ci dà forse una versione diversa del suo ritorno all’Olimpo, corrisponde esattamente a quella che si trova su una coppa proveniente da Vulci e conservata a Berlino, oggi purtroppo dispersa.

Efesto nella coppa già a Berlino (fonte)

Il trono su ruote richiama quello su cui in genere è assiso Trittolemo, che doveva portarlo in giro per il mondo a diffondere i segreti dell’agricoltura di cui Demetra gli aveva fatto dono, e che si muoveva grazie alla spinta di serpenti o draghi alati che facevano girare le ruote. Nella coppa del MAF e in quella di Berlino Efesto è riconoscibile dall’attributo del martello; in quella di Berlino porta anche il kantharos (il calice per il vino) stretto in una mano, ed è questo dettaglio che farebbe pensare all’illustrazione del momento del suo ritorno sull’Olimpo, avvenuto proprio grazie alla “persuasività” di Dioniso.

 

 

 

 

 

Ippopotami e gravidanze d’Egitto

Le vetrine della sezione egizia del nostro Museo sono popolate da molti strani personaggi, davanti ai quali non si può che restare a bocca aperta una volta messi a fuoco. Alcuni sono seminascosti, altri fanno bella mostra di sè, ciò che li accomuna è che ai nostri occhi risultano tanto insoliti quanto curiosi.

Uno di questi è senza dubbio Toeris (o Taweret), una divinità sempre rappresentata con testa di ippopotamo, busto di donna incinta e zampe posteriori di leone, che cammina eretta.

Toeris così come la vediamo nelle vetrine del MAF, su un frammento di stele

Anche se ormai siamo abituati all’aspetto teriomorfo delle divinità egizie, Toeris rimane una visione sorprendente. In piedi, composta, in atteggiamento umano dunque, riceve le offerte delle donne in processione. Eh sì, perchè la dea era la principale protettrice delle donne in stato interessante, come possiamo facilmente dedurre dal suo pancione.

La gravidanza e il parto, allora come oggi, erano un momento molto delicato nella vita delle donne. Proprio per questo, oltre a prestare cure particolari, si cercava di assicurare una protezione speciale, aggiuntiva, alle future madri dotandole di amuleti specifici per l’occasione raffiguranti il dio Bes, che allontanava gli spiriti maligni, oppure di un gatta coi suoi cuccioli, immagine stessa della maternità, e infine di Toeris.

Amuleto della dea gatta Bastet con i cuccioli (fonte)

Porre un pezzo del vestito della donna incinta all’interno di una statua cava della dea, ad esempio, avrebbe evitato un parto difficile, eventualità da scongiurare il più possibile, visto l’alto tasso di mortalità.

Il ricorso a tali strumenti non è insolito, benchè la scienza medica, in particolare quella relativa alla fertilità e alla ginecologia, fosse tutt’altro che modesta. La medicina aveva infatti quasi la valenza di una magia, che riportava un corpo malato alla precedente condizione di sanità.

Gli Egizi conoscevano cure per l’infertilità, metodi di contraccezione, e addirittura un test di gravidanza predittore anche del sesso del nascituro.

Alcuni fogli del papiro Edwin Smith, uno dei più lunghi papiri medici (fonte)

…Metodo per riconoscere se una donna partorirà oppure no: mettere orzo e grano in due sacchi di tela che la donna bagnerà con la sua urina ogni giorno; mettere allo stesso modo sabbia e datteri nei due sacchi. Se germoglierà per primo l’orzo sarà maschio; se germoglierà per primo il grano sarà femmina; se non germoglieranno non partorirà…” (traduzione libera del papiro medico di Berlino)

 

 

 

 

 

Per quanto bizzarro possa sembrare, un esperimento condotto nel secolo scorso ha dimostrato la validità di questo test che si è rivelato affidabile nel 70% dei casi. Questo perchè a grandi linee si basa sullo stesso principio dei moderni test di gravidanza fai da te, cioè la presenza e l’aumento di specifici ormoni, detti estrogeni, nell’urina delle donne durante la gravidanza. Oggi la presenza degli ormoni è rilevata con una semplice reazione chimica, allora si osservava l’influenza degli estrogeni sulla crescita dei cereali. Si tratta dunque di una prova basata su una verifica empirica che non sottintende una conoscenza chimico-fisica degli ormoni da parte degli Egizi.

Per quanto riguarda il sesso del nascituro invece non c’è alcun collegamento con gli ormoni: possiamo dire che si tratta del corrispettivo egizio del nostro fiorentinissimo “pancia ritta ‘un va alla guerra”!

“Avventure tra le pagine” al MAF

Le storie lette ad alta voce esecitano sempre un grande fascino, siano esse le favole più moderne o i miti dell’antichità. E se quelle storie, invece che nella cameretta, fossero per una volta lette in un Museo, dove è possibile ascoltare circondati dalle immagini che arrivano direttamente dall’antichità, e che continuano a parlare a distanza di migliaia di anni?

Il MAF aderisce quest’anno alla prima edizione dell’iniziativa Avventure tra le pagine , ideata da KidPass, nella giornata di sabato 16 novembre 2019. I bambini potranno ascoltare le storie narrate e mimate dagli attori, sfogliare, con l’aiuto degli operatori, le pubblicazioni a loro dedicate e concesse in prestito al Museo dalla Biblioteca delle Oblate (sì, anche i musei possono prendere i libri in prestito dalla biblioteca!) e divertirsi a ricercare le illustrazioni nelle opere esposte.

Al MAF sono in programma tre diverse letture, organizzate in tre punti diversi del Museo; tutte e tre le attività saranno ripetute due volte nel corso della mattinata alle 10.30 e alle 12.

  • La Chimera e Bellerofonte, storia di un mostro e dell’eroe che lo uccise (lettura animata con rappresentazione teatrale)
  • Dentro al labirinto, l’avventura di Teseo e il Minotauro (lettura animata con rappresentazione teatrale)
  • Fantastiche avventure e Storie di coraggio dall’Antico Egitto (lettura eseguita in modalità “interpretata-teatralizzata-partecipata”)

I reperti del nostro museo sono trampolini per essere catapultati nel mondo del mito.  I bambini potrenno scegliere se ascoltare la lettura di una delle versioni dei miti animata dai protagonisti stessi della storia (grazie al contributo degli attori della compagnia “QuinTe InstAbili”) o partecipare all’azione con l’aiuto di sagome e immagini rappresentanti i diversi personaggi del mito.

All’interno del percorso museale saranno allestite, inoltre, postazioni di lettura autonome.

Le attività sono pensate per bambini dai 3 ai 10 anni e sono gratuite (è a pagamento, per gli adulti, il biglietto di ingresso al museo); è obbligatoria la prenotazione, da effettuare esclusivamente on-line alla pagina Iscrizioni, a partire da lunedì 11 novembre.

 

Vi aspettiamo!