UN CRATERE ETRUSCO DELLA COLLEZIONE PASSERINI…MOLTO PIU’ DI UN VASO

La spiccata gestualità e la maestà delle figure dipinte su questo vaso etrusco a figure rosse, catturano certamente l’attenzione. Recuperato a Foiano della Chiana, è uno dei più antichi esempi di pittura etrusca a figure rosse e fu prodotto in Etruria intorno al 430-10 a. C., sulla base di modelli greci, attici.

Questo maestoso vaso etrusco a figure rosse, databile intorno al 430-10 a. C., è molto, molto di più di un semplice oggetto da mensa. La famiglia del defunto, nel momento in cui lo ha deposto nella sua tomba a Foiano della Chiana, ha voluto che fosse il simbolo del viaggio del loro caro verso l’aldilà.

Si tratta di un cratere a colonnette, vaso utilizzato per mescolare l’acqua con il vino durante i banchetti e i simposi; gli antichi infatti non consumavano il vino puro, ma diluito e speziato. Il termine “colonnette” si deve alla particolare forma delle sue anse. La decorazione è curata nei minimi dettagli anche sulla bocca, sul labbro e sul collo, dove le foglie di edera, le palmette e gli altri motivi geometrici sono ottenuti diluendo la vernice nera.

Sul lato A sulla destra è raffigurato il defunto con folta barba, avvolto nel suo mantello, mentre assiste ai giochi funebri organizzati in suo onore, come era uso fare nell’antichità, fin dall’epoca della guerra di Troia, narrata da Omero. Un grande bruciaprofumi lo separa dalla scena principale, nella quale due pugili si affrontano, mentre un fanciullo accompagna la gara con un doppio flauto.

Lato A

Sul lato opposto, un grande altare separa due scene diverse, forse in sequenza. Al centro il dio etrusco Turms, dio dei viaggi e del commercio, il greco Hermes ed il romano Mercurio. In questo caso si tratta di Turms Aitas (legato all’Ade, all’oltretomba). Il suo cappello a larghe falde, il corto mantello sulle spalle (clamide) e il caratteristico bastone (caduceo) lo rendono inconfondibile.

Nella scena di sinistra il dio è seduto sul grande altare e sta salutando un altro personaggio barbato, con cappello a falde larghe e torso scoperto, che si trova all’estremità della scena. Sul lato destro invece sembra che Turms si stia alzando dall’altare, per andare incontro ad un uomo barbato, avvolto nel suo mantello, probabilmente ancora il defunto, forse ormai giunto al termine del suo viaggio ultraterreno e vicino alle porte dell’aldilà.

Lato B

Nonostante l’apparente chiarezza delle immagini e l’inconfondibile presenza del dio Turms, è difficile comprendere a pieno il significato delle scene rappresentate. Certamente la speranza che il defunto assista alle cerimonie in suo onore e l’effimera consolazione che sia accolto dal dio alle porte dell’Ade, rendono meno netto il distacco per chi resta. E così, in questo caso come in molti altri, la famiglia ha affidato alle immagini quel disperato bisogno di certezza che tutti noi abbiamo di fronte alla morte e quel voler dare una forma a qualcosa che inevitabilmente sfugge alla nostra natura umana.

Il graffione: uno strumento particolare

Con il termine graffione si definiscono alcuni strumenti di grandi dimensioni (fino a oltre 40 cm di diametro), perlopiù in bronzo e databili tra il V e il IV secolo a. C. 

Graffione in bronzo dalla Collezione Passerini, ora in mostra al Museo Archeologico Nazionale di Firenze

Di questo strano utensile conosciamo due versioni: una con punte arrotondate attorno ad un anello centrale e l’altra con rebbi perpendicolari rispetto a una barra trasversale. Ripercorrendone la storia degli studi, potremmo trovarne molti pubblicati come Pempobolon, Kreagra, Harpax, Harpago, nomi che si riferiscono a uncini, a forchettoni per gestire la carne sul fuoco o nel calderone, o addirittura ad armi per l’assedio, sia marittimo che terrestre. Tra le interpretazioni più curiose ricordiamo quella di strumento per ripescare i vasi caduti in fondo ai pozzi o perfino di oggetto appositamente creato per la tortura dei cristiani, come documentato su una lunetta del Museo Chiaramonti in Vaticano dove, ai piedi della croce, compaiono due graffioni etruschi. 

Lo stesso nome di graffione è stato usato spesso dagli studiosi per definire anche un gruppo di “forchette” per la cottura della carne (da chiamare piuttosto kreagrai), che sono in realtà molto diverse dal nostro esemplare, perché non hanno l’uncino al centro, sono molto più piccole, hanno un numero maggiore di rebbi ed erano utilizzate durante i banchetti.

Particolare dell’immanicatura con testa di serpente

Oggi l’opinione più accreditata è che i nostri graffioni fossero legati all’illuminazione artificiale, come è possibile capire osservando una scena graffita su uno specchio di bronzo da Civita Castellana (l’antica Falerii), oggi conservato al Metropolitan Museum di New York.

Specchio in bronzo con Admeto e Alcesti, da Civita Castellana, seconda metà del IV sec. a. C., Metropolitan Museum, New York

Su questo bellissimo oggetto, databile alla seconda metà del IV secolo a.C., accanto ai due sposi, Admeto e Alcesti che si abbracciano, vediamo un personaggio, forse Hymenaios, divinità tipica del corteo nuziale, con un graffione in mano; possiamo notare che intorno alle punte dell’oggetto è attorcigliata una corda raffigurata nell’atto di prendere fuoco, illuminando così la strada al dio che si allontana. Questa particolare tecnica di illuminazione, che sfrutta corde o filamenti di legno intrecciati e imbevuti di resine, grasso animale o sostanze bituminose, è confermata dalle fonti antiche (ad esempio dai testi dei grammatici Servio e Elio Donato). Questo è un bell’esempio di come l’integrazione tra i testi antichi e le testimonianze archeologiche possa svelare qualche mistero sulla vita quotidiana nell’antichità.

Per ulteriori approfondimenti vi invitiamo a consultare il catalogo della mostra “Tesori dalle terre d’Etruria. La collezione dei conti Passerini, Patrizi di Firenze e Cortona” a cura di M. Iozzo e M. Luberto. 

Chi rompe… Riaggiusta, perché i cocci sono suoi!

Oggi, quando parliamo di restauro, pensiamo subito alle opere d’arte o oggetti di significativo valore storico danneggiati dal tempo o da eventi sfortunati che hanno bisogno di essere riportati all’originario splendore. Ma c’è un’altra forma di recupero, che oramai la nostra cultura riserva soltanto agli oggetti depositari di un particolare valore affettivo, e che tuttavia nell’antichità (e fino a poche decine di anni or sono) era imposta dalla necessità quotidiana: è l’arte di riaggiustare gli oggetti semplicemente per prolungarne la destinazione d’uso oltre l’accidentale rottura.

Grande dolio con riparazione antica conservato nel giardino del MAF

Questo “restauro”, più poetico e elevato addirittura a forma d’arte nella cultura giapponese (il kintsugi, che impreziosisce le rotture con l’oro), non è raro nei reperti archeologici: oltre a costituire una preziosa fonte di informazioni sulle abilità tecniche degli antichi, apre per noi inaspettate finestre sulla vita quotidiana dei nostri antenati. Molto comune è, per esempio, trovare vasi già rotti e rimontati in antico, i cui “cocci” sono tenuti insieme con grappe metalliche di piombo o bronzo: il metallo poteva essere colato in apposite scanalature oppure utilizzato sotto forma di sottili lamine tenute insieme da rivetti.

Una ciotola riparata con la tecnica giapponese del Kintsugi. Le fratture, impreziosite con l’oro, diventano una decorazione e raccontano la storia dell’oggetto (Fonte )

Non sempre i mezzi a disposizione consentivano di restituire la completa funzionalità all’oggetto (non è detto che le suture, per esempio, potessero essere completamente impermeabilizzate con la pece in modo da trattenere anche liquidi): i vasi, tuttavia, potevano continuare ad essere usati come contenitori per solidi o semplicemente far bella mostra delle immagini che ne decoravano il corpo.

Un esempio per tutti? Ma il vaso François, naturalmente! Forse non tutti sanno, infatti, che anche il rex vasorum non fu immune da rotture antiche (oltre che moderne…): qualche incauta mano, forse etrusca, ne provocò il netto distacco delle anse, forse nel tentativo di sollevarlo pieno di vino. Osservandolo nella sua vetrina, si vedono ancora bene i buchini in cui passava il metallo che doveva tenere insieme i pezzi.

Le tracce lasciate dalla riparazione sulle anse del vaso François

Un po’ diverso è il caso delle riparazioni effettuate in corso d’opera, per porre rimedio alle imperfezioni che avrebbero compromesso la realizzazione di un’oggetto a regola d’arte. È il caso delle riparazioni con metallo colato effettuate nell’argilla ancora cruda, che si era crepata in fase di essiccazione (come nei dolia rinvenuti a Diano Marina) o ancora dei tasselli inseriti a coprire piccoli buchini o imperfezioni  nelle sculture in bronzo. Al MAF, un esempio formidabile è il torso di Livorno, nel quale si leggono addirittura le tracce di questi interventi in due diversi momenti della storia.

La scultura, infatti, è una copia romana di un originale greco anch’esso di bronzo, effettuata per calco. A confermarcelo sono le impronte dei tasselli originali, che appaiono come piccole toppe in rilievo sulla superficie della scultura, ma che in realtà sono tutt’uno con essa. A queste si aggiungono i tasselli veri, oggi saltati via, che coprivano piccoli fori nella superficie.

A sinistra, impronte di tasselli che eliminavano piccoli difetti sull’originale; a destra, l’alloggiamento di un tassello che copriva un buchino nella copia.

Non solo gli oggetti antichi giunti integri fino a noi ci aiutano dunque a ricostruire la storia passata, ma persino le tracce dei piccoli e apparentemente insignificanti eventi quotidiani che portano addosso, se si sanno ascoltare, sono echi lontani del lavoro nelle officine, della vita nelle cucine di una ricca abitazione o ancora su una nave da trasporto.

La tazzina scheggiata del film Disney “La Bella e la Bestia” (fonte)

Ferie d’agosto o “feriae” d’Augusto?

Come non ricordare il primo imperatore romano nel mese che ne porta ancora orgogliosamente il nome? Nell’antica Roma il mese di Agosto, in cui ricorrevano una serie di importanti feste religiose, era interamente dedicato ad Ottaviano Augusto.

Cammeo con profilo di Augusto conservato al MAF

Nel 18 a.C. l’imperatore istituì le feriae Augusti (termine da cui deriva la parola Ferragosto!), un periodo di riposo che ricopriva tutto il mese, in cui già per tradizione si concentravano tante feste e ricorrenze religiose, legate prevalentemente alla fine dei lavori agricoli e ai raccolti.

La più importante di queste era quella di Diana, il 13, che veniva celebrata nel suo tempio sull’Aventino proprio nel giorno della sua fondazione da parte del re Servio Tullio e nel santuario sul lago di Nemi. In questo giorno (le idi di Diana, appunto) anche gli schiavi erano liberi di festeggiare e riposarsi dal lavoro. La dea, identificata in questo santuario con l’Artemide greca (soprattutto nella forma in cui era venerata ad Efeso), proteggeva le donne e gli aspetti legati alla gestazione. Al MAF, tra i bronzetti romani, sono conservate due immagini di Diana:

entrambi i bronzetti, derivati da tipi di età ellenistica, presentano la dea come cacciatrice, con veste corta e stivaletti, rispettivamente in corsa, nell’atto di tendere l’arco, e stante, mentre estrae una freccia dalla faretra portata sul dorso.

Successivamente, nella cultura cristiana, a queste celebrazioni pagane si è andata sovrapponendo la festa dell’Assunzione in Cielo di Maria, che fu fissata proprio al 15 agosto, che oggi in Italia è a tutti glieffetti un giorno di festa. E quale modo migliore di celebrarlo, allora, che visitando un museo? Noi vi aspettiamo! 😉

 

 

 

Dal MAF a Bologna, i reperti in viaggio nelle terre dei Rasna!

Da circa un mese, e fino al 29 novembre, è nuovamente possibille visitare la mostra allestita presso il Museo Civico Archeologico di Bologna “Viaggio nelle terre dei Rasna“, nella quale sono esposti, assieme a numerosi capolavori etruschi, oltre cento reperti provenienti dal MAF. La cultura dei Rasna, nome con cui gli Etruschi identificavano se stessi, è presentata attraverso un viaggio in tutti i territori che la hanno conosciuta, dal centro Italia fino alle estreme propaggini campane e padane.

Tra i pezzi prestati dal MAF abbiamo scelto di approfondirne alcuni, per invogliarvi ad approfondire direttamente alla mostra.

I primi sono due hydriai, ovvero vasi per contenere acqua, che non sono di produzione etrusca ma che provengono da una ricchissima tomba di Populonia. I due vasi, a figure rosse con sovradipinture in oro e datati al 420-410 a.C., sono stati realizzati ad Atene e sono identificati come opere del pittore di Meidias: su di essi sono dipinte figure legate alla sfera di Afrodite e dei suoi due grandi amori, Faone e Adone. Assieme agli altri elementi del corredo, i due vasi fanno identificare il proprietario della tomba con una donna etrusca di alto rango, forse una sacerdotessa; le hydriai potevano aver costituito un dono di nozze legato al bagno purifucatore della sposa prima della cerimonia, oppure essere i contenitori lustrali usati in alcuni rituali di offerta alle divinità. Certamente realizzate in coppia dallo stesso ceramista, e dipinte dallo stesso pittore, furono esportate verosimilmente insieme. Una curiosità: come speso accade per i vasi greci, anche in questo caso conosciamo il nome del ceramista, Meidias, ma non del pittore (identificato come pittore “di Meidias”): questo perché per i greci all’interno della bottega era più importante chi plasmava il vaso rispetto a chi lo dipingeva.

In seconda battuta esaminiamo un reperto che nell’esposizione permanente del MAF occupa un posto d’onore, e condivide la sala con la Chimera e l’Arringatore. Si tratta della testa bronzea di giovinetto, di provenienza incerta (forse Fiesole?). La testa, di dimensioni al vero, apparteneva a una statua funeraria o forse votiva; i grandi occhi sono privi di iride, che doveva essere inserita, come spesso nella scultura beonzea, realizzata in altro materiale; le sopracciglia sono rese con il consueto motivo a treccia, i capelli corti e a spesse ciocche formano una frangia sulla fronte. Per quanto non si possa affermare di trovarsi di fronte ad un vero e proprio ritratto fisiognomico, i tratti delicati e in parte idealizzati rendono con grande efficacia  l’espressione dolce e distaccata di questo adolescente. La datazione è al 375-350 a.C.

Ultimo, ma non per importanza, un reperto che normalmente non si trova nel percorso espositivo nel MAF: l’urna cineraria proveniente da Città della Pieve, loc. Bottarone. Sul coperchio dell’urna, caratterizzata ancora dalle vivaci tracce della policromia originaria, si trova rappresentata la coppia coniugale: il defunto, nella consueta posizione del banchetto, semisdraiato sulla kline, e la moglie, accomodata accanto a lui ma seduta, che in questo periodo (siamo agli inizi del IV sec. a.C.) sostituisce le figure alate di demoni o lase che nella scultura funeraria chiusina di epoca classica accompagnavano i defunti nel loro ultimo, eterno banchetto. Sul collo della donna sono visibili due fori, che servivano a bloccare la collana che in origine la scultura indossava, e che abbiamo la fortuna di conservare al museo.

Se queste brevi istantanee vi hanno incuriosito… non vi resta che continuare il viaggio alla mostra: i Rasna vi aspettano!

“Silvestrem tenui musa meditaris avena”*… La musica e il quotidiano nel mondo antico

*”Intoni sul flauto sottile una melodia silvestre” (Virgilio, Bucoliche, I, 2)

Accompagnare i più banali gesti di ogni giorno con le note della propria musica preferita: niente di più normale per gli umani del terzo millennio, con gli auricolari dello smartphone ben piazzati nelle orecchie. Ma non siamo poi così avanti come la tecnologia ama farci credere… Proprio come nel caso di Titiro, che suona il flauto mentre il bestiame pascola, anche nell’antichità la musica scandiva i ritmi delle giornate: non solo nei luoghi deputati, come il teatro, ma anche durante i banchetti, le cerimonie religiose, durante la terrificante marcia dei soldati in battaglia, quando le note impartivano comandi, infondevano coraggio e coprivano il fragore delle armi.

Dettaglio della decorazione della situla di Plikasna (terzo quarto del VII sec. a.C.), in cui il guardiano accompagna i verri al suono dell’aulòs

In funzione delle loro caratteristiche, gli strumenti (a fiato, a corda o a percussione) si legano intimamente a determinati momenti, attività o culti, a seconda che la musica che producono sia più sfrenata e ritmata o tranquilla e serena. In occasione della Festa della Musica, a cui il Mibact dedica la giornata odierna, vi proponiamo un percorso tra gli strumenti musicali conservati (e rappresentati) nelle collezioni egizie, etrusche e greche del MAF.

Nella sezione egizia sono conservati i resti degli strumenti più antichi del MAF: un’arpa portatile (sono andate perdute le corde che venivano pizzicate), che si suonava tenendola appoggiata su una spalla, e una nacchera, originariamente composta da due braccia in avorio. Utilizzate come sostituzione del battito ritmico delle mani per accompagnare canto e danza, le nacchere ne assumevano spesso la forma, ed erano usate soprattutto nel culto di Hator, la dea vacca protettrice, tra l’altro, proprio della musica e della danza.

Arpa (Nuovo Regno, XVIII dinastia, 1550-1291 a.C.) e nacchera (Nuovo Regno, 1550-1070)

Sistro in bronzo (Epoca Tarda 664 a.C.- 332 a.C.)

Lo strumento che più di ogni altro caratterizza l’immaginario egizio, tuttavia, è forse quello legato al culto di alcune divinità femminili (Iside, Bastet, la dea gatta, o ancora Hator), il sistro: si tratta di uno strumento a percussione in metallo, in cui il suono è prodotto dalle stanghette che, muovendosi, sfregano contro il telaio su cui sono montate.

Mentre per il mondo greco e romano le fonti parlano ampiamente delle musica, e addirittura abbiamo traccia di melodie scritte, come al solito gli Etruschi costituirebbero una grossa lacuna nel nostro sapere se non fosse per le fonti iconografiche e materiali. Gli autori greci e latini ci dicono comunque che accompagnavano con la musica le attività più disparate, come la cucina (e fin qui, per noi, niente di strano…) ma anche la fustigazione dei prigionieri! Quanto agli oggetti reali, al MAF è conservato un esemplare di cornu in bronzo proveniente dal Tumulo dei Carri di Populonia, attualmente non in esposizione; strumento utilizzato soprattutto in ambito militare, sappiamo che poteva essere utilizzato anche durante la caccia e i banchetti. Associato spesso al lituus, un altro strumento a fiato, lungo e dritto con estremità ricurva, impiegato prevalentemente in ambito rituale, divenne presto simbolo del potere politico e militare, e proprio come segnale della posizione sociale ricoperta dal defunto compare anche nella tomba di Populonia.

 

Corno in bronzo da Populonia (VII sec. a.C.)

Come sempre, poi, laddove non sono sufficienti le fonti materiali, ci vengono in soccorso le raffigurazioni. Il doppio aulòs, per esempio, è rappresentato su uno specchio da Palestrina con scena di sacrificio, oltre che su numerose urne a rilievo. A differenza del nostro flauto, termine con cui viene comunemente tradotto, l’aulòs greco ed etrusco era uno strumento che veniva suonato con l’ausilio di un’ancia e l’aria, che veniva trattenuta nelle guance, veniva immessa in maniera continua. La musica cadenzava le processioni e ritmava i diversi momenti dei rituali (soprattutto dionisiaci), come quello in cui si accompagnava all’altare la vittima destinata ad essere sacrificata agli dei.

Specchio in bronzo, fine VI sec. a.C.

Bronzetto di suonatrice di crotali, 490-480 a.C.

Di pari passo con la musica, ovviamente, andava la danza: quella ritmata e sfrenata che veniva accompagnata dal suono dei crotali, per esempio, una sorta di nacchere di cui si faceva uso nei rituali dionisiaci.

Per il mondo greco sono numerose le testimonianze dell’uso degli strumenti musicali: i banchetti e i simposi erano regolarmente accompagnati dal suono dell’aulòs o della lira, lo strumento a corda che usava come cassa di risonanza il guscio di una tartaruga e la cui invenzione, secondo il mito, sarebbe da attribuire al dio Ermes. E sono proprio le coppe, tra le forme vascolari più rappresentative di questi momenti conviviali, che ci restituiscono le scene più vivide:

Da sin.: coppa attica attribuita a Douris con auleta, 480 a.C.; coppa attica del pittore di Antiphon con giovane con lira, 490-480 a.C.; coppa attica del pittore di Euaion con lira, 460-450 a.C.

Infine, altre due rappresentazioni dell’aulòs a tutto tondo, tra quelle conservate al MAF, colpiscono per un dettaglio molto importante: si tratta della statuetta di suonatore di provenienza cipriota, in pietra calcarea, e di un bronzetto romano rappresentatnte un satiro (dove il flauto è integrazione ottocentesca, ma ricostruisce con ogni verosimiglianza l’originale). In entrambe è infatti visibile la phorbeia, ovvero la fascia che serviva a tenere ben saldi i bocchini dello strumento alle labbra mentre le mani erano impegnate a coprirne i fori.

Suonatore di doppio aulòs da Cipro, VI sec. a.C., e bronzetto di satiro, I-II sec. d.C.

 

C’era una volta al Museo – F@MU 2019

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Anche quest’anno torna al MAF la Giornata delle famiglie al Museo! Ormai per il nostro museo è una piacevole tradizione fin dal 2013, e come di consueto anticiperemo di un giorno l’appuntamento, che si svolgerà non domenica 13, ma SABATO 12 OTTOBRE dalle 8.30 alle 14. La Famu dura di più! Approfittatene per visitare due musei, trovate la l’elenco di tutti i musei aderenti in Italia qui.

Scopriremo insieme le nostre due opere più famose con “C’era una volta al Museo”. Conoscete la storia di Bellerofonte e di come incontrò la Chimera? Sapete che il Vaso François è un vero e proprio libro da sfogliare?

locandina

Abbiamo nascosto un mito sotto il cuscino! Mettetevi comodi e ascoltate i racconti dietro a questi due capolavori, ma… i nostri operatori avranno bisogno di un piccolo aiuto da parte dei piccoli visitatori!

Le  due attività “Un mito sotto il cuscino: la Chimera e il Vaso François” sono gratuite e aperte a tutti, ma si rivolgono in particolare a bambini dai 3 ai 10 anni. Si svolgeranno ogni ora, a partire dalle 9 fino alle 12. Per partecipare occorre prenotarsi esclusivamente online alla pagina ISCRIZIONI del nostro blog a partire da lunedì 7 ottobre. Per rendere più confortevole la vostra attività portate un cuscino per i vostri bambini, così potranno sentirsi davvero a loro agio nel Museo.

L’ingresso è a pagamento a partire dai 18 anni.

Vi aspettiamo!

 

 

 

Se scappi… ti inseguo!

E ti conquisto, avrebbe detto un dio greco… Anche se l’happy ending, purtroppo, a quel tempo non era ancora stato inventato! Quindi, ve lo diciamo subito: le favole di San Valentino raccontate nelle vetrine del MAF vanno a finire male. Ma raccontano di passioni travolgenti, amori tragici, contrastati, di rapimenti e inganni amorosi.

La fuga d’amore in questo contesto è piuttosto una fuga via dall’amore non voluto di un personaggio troppo insistente. Solitamente si tratta di amanti divini, dai quali i mortali trovano difficilmente scampo.

La storia che vi raccontiamo è invece un’eccezione: ha per protagonista Eos, la dea dell’Aurora, che, probabilmente per una maledizione di Afrodite, era continuamente attratta da giovani mortali. Il più famoso tra i suoi amati è Tithonos, figlio di Laomedonte, appartenente alla stirpe troiana. Il ragazzo tentò la fuga arrivando perfino a minacciare la dea usando la sua lira come un’arma fino a quando Eos non riuscì a ghermirlo e a portarlo nella sua dimora ai confini dell’Oceano. Non si tratta, dunque, di un rapimento temporaneo, volto solo a soddisfare un momentaneo desiderio, ma di un vero e proprio isolamento del giovane dagli altri mortali. Per esaudire fino in fondo questa aspirazione Eos  chiese a Zeus di concedere l’immortalità a Tithonos, ma, o per ingenuità o per lo zampino di Afrodite, dimenticò di chiedere per l’amato anche l’eterna giovinezza. Il povero Tithonos  fu destinato a godere dei favori della dea solo fino alla sfiorire della sua bellezza: con l’avanzare dell’età fu sempre più messo da parte, fino a quando, con il sopraggiungere della vecchiaia, la dea ritenne di non essere ulteriormente infastidita dalla vista del decadimento fisico del suo vecchio amante, e lo rinchiuse in una stanza. Alcune versioni del mito raccontano un finale più clemente: Tithonos, ormai vecchio, viene trasformato da Eos in una cicala, in modo che potesse ancora tenerle piacevole compagnia con la musica del suo frinire.

Eos che rapisce Tithonos su uno skiphos a figure rosse esposto al MAF

Eos è l’unica divinità femminile che rapisce mortali, in un mondo nel quale di solito è il dio a insidiare giovani fanciulle. È stata definita anche la dea predatrice e come tale fa da contraltare a Teti, la dea rapita da un mortale.

Restituzione grafica dello specchio etrusco con Peleo che imprigiona e trattiene Teti conservato al MAF

Teti, infatti, era una delle cinquanta figlie di Nereo e Doride, due divinità marine. Gli dei la destinarono al matrimonio con un mortale perché era stato predetto che suo figlio avrebbe superato il padre in potenza e intelligenza. Teti però, restia ad accettare un matrimonio che avrebbe diminuito il suo rango, usò tutti suoi poteri per sfuggire a questo destino. Peleo riuscì a vincerla tendendole un agguato e cingendola in un abbraccio che mantenne saldo finché la dea non si arrese. Fu una facile conquista? Non proprio, dal momento che Teti mutuava dall’acqua, il suo elemento naturale (era figlia di due divinità marine, dopotutto) il potere di trasformarsi. Così come l’acqua può cambiare forma in base al suo contenitore, anche lei si trasformò: dapprima in acqua e fuoco, poi in leone e in serpente e addirittura in una seppia, per tentare di scomparire in una macchia d’inchiostro, ma infine, esausta, accettò di sposare Peleo.

Peleo e Teti (in casa) che ricevono gli dei invitati alla cerimonia di nozze, sul Vaso François

 

Entrambe le dee ebbero figli nati da questo amore imposto/subito: Eos generò Memnone e Teti Achille. Nessuna delle madri riuscì a trasmettere al figlio l’immortalità ed entrambe li perderanno prematuramente nello stesso frangente: la guerra di Troia. Memnone infatti era alleato di Troia, in virtù della discendenza del padre Tithonos, e dopo aver ucciso molti guerrieri greci, affrontò in duello Achille. A riprova del suo valore le fonti raccontano che fu l’unico a scalfire la pelle invulnerabile di Achille, ma ciononostante fu ucciso dall’avversario. Ecco dunque che sul campo di battaglia si decidono le sorti delle due dee: Eos e Teti si trovano davvero contrapposte anche nel mito e la fortuna della Nereide sarà soltanto temporanea, perché anche Achille successivamente perirà sotto le mura della città di Troia.

Combattimento tra Achille e Memnone, assistiti ciascuno dalla propria madre. (fonte)

Cosa resta di questi due amori? Un finale amaro, dove le dee, eternamente giovani, assistono al declino dei mariti, uno, Tithonos, condannato a una vecchiaia senza fine, l’altro, Peleo, che sarà invece graziato dalla morte.

L’accordo tra Polo Museale della Toscana e Uffizi: nuove opportunità per il pubblico e il Museo Archeologico di Firenze

UN PATTO PER L’ARCHEOLOGIA, UN PATTO PER FIRENZE, L’ITALIA E L’EUROPA: così è stato presentato l’accordo di collaborazione, firmato lo scorso 17 gennaio, tra Polo Museale della Toscana e Uffizi che prevede importanti novità per il Museo Archeologico Nazionale di Firenze.

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I capolavori del MAF: la Chimera, il rilievo con la dea Maat, il Vaso François

L’accordo rappresenta sicuramente un vantaggio per i visitatori che, tra pochi giorni, a partire dal 1 marzo, potranno entrare gratis al Museo Archeologico di Firenze con l’acquisto del biglietto degli Uffizi. Ogni biglietto degli Uffizi comprenderà, infatti, anche l’ingresso gratuito al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (valido per 5 giorni entro la data dell’utilizzo del biglietto agli Uffizi). Anche l’abbonamento annuale Passepartout degli Uffizi (50 euro) e di tutte le Gallerie degli Uffizi con Uffizi, Palazzo Pitti e Giardino di Boboli (70 euro) oltre all’ingresso prioritario agli Uffizi per i 365 giorni successivi al primo utilizzo comprenderà sempre anche l’ingresso gratuito al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Rimane inalterata la possibilità di acquistare il solo biglietto del Museo Archeologico  secondo il tariffario vigente.

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Il giardino all’inizio del Novecento, con l’allestimento delle sculture romane sotto gli arconi del Corridoio Mediceo

Presso la biglietteria del Museo Archeologico sarà inoltre possibile comperare il biglietto di ingresso agli Uffizi, evitando la fila, senza sovraprezzi, e, se si vuole, iniziando la visita proprio da qui. L’accordo, infatti, non rappresenta solamente un’operazione tecnica ma ha le sue radici nella storia delle due istituzioni. Infatti è importante ricordare che, alla fine XVI secolo, le prime opere d’arte ad essere ospitate nel complesso degli Uffizi furono i marmi delle collezioni medicee. Le raccolte ebbero quindi in origine un carattere archeologico, volto alla riscoperta dell’antico. Fino all’Unità d’Italia negli Uffizi era possibile ammirare non solo la quadreria ma anche buccheri etruschi, vasi figurati, urnette, statue egizie, argenterie tardo-romane, oltre alle grandi sculture romane in marmo che davano il nome al Museo.

Solo negli ultimi anni del Granducato di Toscana e soprattutto con l’Unità d’Italia si realizza il distacco delle collezioni archeologiche, per prima la Collezione Egizia e poi capolavori indiscussi come la Chimera, l’Arringatore, la Minerva, l’Idolino, il Vaso François, la testa di cavallo Medici Riccardi ecc. che lasciarono le sale degli Uffizi per dar vita ad una nuova entità museale. Quest’ultima conserva quindi un rapporto inscindibile con le collezioni degli Uffizi e può fornire delle chiavi di lettura che consentono al visitatore di comprendere e apprezzare al meglio i capolavori in essi ospitati. Ecco perché un ideale percorso di visita potrebbe iniziare proprio dal Museo Archeologico.

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Il primo allestimento delle sale etrusche del museo

 

Dopo il distacco dagli Uffizi il museo continua a crescere e inizia a costruire una propria identità nel clima culturale post-unitario. Un’identità certamente basata sulla volontà di dare visibilità e uniformità al concetto di nazione, ma anche frutto del rapporto moderno tra stato e cittadino e ben conscia delle finalità educative del museo. L’esposizione viene ulteriormente arricchita grazie agli acquisti fatti dai Savoia, alla politica di scambi con altre nazioni e soprattutto alle campagne di scavo, andando così a definirne meglio i caratteri specifici e la fisionomia del museo.

L’accordo presuppone dei notevoli vantaggi per il Museo Archeologico al quale verrà destinato il 2,5% dell’introito derivante dalla bigliettazione degli Uffizi che consentirà la messa in cantiere di attività che spaziano dal restauro, a nuovi allestimenti, mostre, pubblicazioni, ecc.

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Il Museo luogo di incontro, gioco e apprendimento anche per il pubblico dei più piccoli!

L’operazione fornisce inoltre al museo l’opportunità di essere inserito all’interno di più ampi flussi turistici, portando all’attenzione dei visitatori, ma anche degli operatori di settore, la ricchezza del proprio patrimonio e le numerose attività didattiche e scientifiche, ben note al pubblico fiorentino, che esso svolge. Ogni anno il museo ospita, infatti, migliaia di studenti all’interno delle sue sale, fornendo anche possibilità di visite guidate ad hoc, laboratori didattici, incontri di archeologia narrata, e organizza mostre e conferenze. Non a caso l’accordo tra Polo Museale della Toscana e Uffizi prevede anche una più stretta collaborazione su questi aspetti con attività scientifiche, di ricerca e divulgazione coordinate e promosse dalle due istituzioni.