La favola di Amore e Psiche

“Erant in quadam civitate rex et regina” (C’erano una volta in una città un re e una regina)

Apuleio, Metamorfosi, IV, XXVIII

 

Così cominciano le favole, anche quelle vecchie di quasi duemila anni. E proprio queste parole avrà forse declamato chi avrà stretto e srotolato tra le proprie mani il papiro di cui un frammento è giunto fino al Museo Egizio di Firenze, mentre vi tracciava un’illustrazione della favola di Amore e Psiche, raccontata magistralmente da Apuleio ne “Le metamorfosi”.

Il frammento con Amore e Psiche (fonte)

Racconta la storia che Psiche, principessa dalla incredibile bellezza divina, fu destinata dall’invidia di Venere a un matrimonio infelice, a cui la sottrasse Cupido, invaghitosi di lei. La fanciulla, trasportata in un palazzo splendente dal vento Zefiro, era destinata a non conoscere mai il proprio amante, che la visitava solo di notte sparendo prima dell’alba. Venute a conoscenza del suo segreto, e invidiose della sua ricchezza e felicità, le sorelle le avrebbero però instillato il dubbio di essere la sposa di un mostro destinato ad ucciderla, convincendola a rompere la promessa fatta al misterioso amante e a spiarlo nel sonno alla luce di una lampada. Mentre la lucerna rivela a Psiche la vera identità di Cupido che giace addormentato nel letto, uno schizzo di olio lo sveglia e il dio dell’amore scompare lasciandola da sola, nella più cupa disperazione. La giovane dovrà affrontare quattro terribili prove inflittele da Venere per cercare di redimersi, e proprio al termine dell’ultima, cadendo vittima ancora una volta della propria curiosità, vanifica gli sforzi fatti e cade addormentata in un sonno simile alla morte. Ancora una volta è Cupido che, mosso dall’amore di cui lui stesso è vittima, la salva e ottiene da un benevolo “nonno Giove” il permesso di sposare la fanciulla, resa immortale da una coppa di ambrosia, in uno sfarzoso ricevimento celeste.

La celebre versione di Amore e Psiche di Canova, conservata al Louvre (fonte)

Il papiro del MAF (PSI VIII 919), datato al II sec. d.C., appartiene ad una ristretta serie di documenti simili, provenienti da Ossirinco, che vengono riconosciuti come “fogli di bottega”, ovvero schizzi preparatori per illustrazioni forse più grandi. Il formato di questi disegni tracciati semplicemente ad inchiostro, infatti, non è compatibile con le dimensioni delle illustrazioni che accompagnavano i testi, rapportabili in genere all’ampiezza delle colonne di scritto.

Nell’immagine, come nel racconto di Apuleio, i due sono poco più che bambini; Psiche, che stringe in mano un oggetto (forse proprio la lampada?) ha ali di farfalla (simbolo per antonomasia dell’anima e della metamorfosi, e designata dalla stessa parola greca psyché) e Amore ali piumate. La metafora dell’anima come essere volante (uccello, farfalla o falena) viene da lontano, così come alato è anche l’amore, che stringe quasi sempre una torcia, simbolo della contemplazione della bellezza e del fuoco della vita. Così i due sono rappresentati anche su due cammei in sardonica appartenuti alle collezioni medicee ed esposti al MAF: nel primo addirittura Amore, con la sua fiaccola, tormenta Psiche, mentre la trascina per i capelli… Le vere pene d’amore!

Cammei conservati al MAF. Amore tormenta Psiche con una fiaccola, tirandole i capelli (fonte) (epoca augustea o XVI sec.) e Amore e Psiche abbracciati

La favola di Apuleio è da leggere come un’allegoria di ciò che l’anima umana, deve superare e imparare per ottenere la propria redenzione: Psiche perde a causa della sua naturale curiosità l’originaria condizione di beatitudine, e soltanto attraverso una lunga serie di travagli, una maturazione interiore e l’intervento della divinità (Amore) potrà ottenere il riscatto finale.

Amore e Psiche, II sec. d.C., Firenze, Galleria degli Uffizi (fonte)

Un racconto complesso, nutrito di simboli e teorie filosofiche, che però ancora oggi incanta come solo una favola sa fare. E con questa interpretazione più leggera e spensierata il MAF vi augura buon San Valentino!

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