Ippolito Rosellini, studioso per amore

In questo giorno nel 1843 morì a Pisa il padre dell’egittologia italiana, Ippolito Rosellini. Per noi al MAF è una figura speciale, perché è grazie a lui che oggi il nostro museo conserva ed espone una delle collezioni egizie più importanti al mondo. Fu proprio Rosellini a convincere il granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena a finanziare la spedizione franco-toscana in Egitto e questo servì da sprone al re Carlo X di Francia per accordare lo stesso finanziamento a J-F. Champollion. Ma se già vi abbiamo parlato della famosa spedizione, oggi vorremo scoprire qualcosa di più dell’aspetto privato di Rosellini che tanto lo influenzò anche nei suoi studi.

Niccola Francesco Ippolito Baldassare Rosellini, questo infatti il suo nome completo, nasce il 13 agosto 1800 in una famiglia di commercianti originari di Pescia. Il padre destina subito il figlio primogenito a continuare la sua attività, ma vista l’attitudine allo studio del bambino, muta parere e ne affida l’educazione dapprima alla confraternita dei padri serviti a Pisa, e, al compiere dei 13 anni, a Firenze presso la SS. Annunziata. All’arrivo a Firenze viene affidato alle cure educative di Padre Costantino Battini, con cui instaura un rapporto filiale, arrivando a considerarlo un secondo padre.

Busto di Ippolito Rosellini al MAF.

È per amor suo, più che per amore della materia, che indirizza i suoi studi verso l’antico. Tra i 16 e i 17 anni ritorna a Pisa dove frequenta l’Università sempre sotto la guida del Battini, al quale si aggiunge il cavalier Bagnoli, che lo tengono al riparo dalla tentazione di partecipare alla tumultuosa scena politica italiana del periodo. Il 5 giugno 1821 ottiene la laurea in Teologia e gli viene assegnata, grazie alla raccomandazione del professor Bagnoli, una pensione, una moderna borsa di studio potremmo dire, per lo studio delle lingue orientali in modo da prepararsi alla nomina, quando fosse stato pronto, a professore presso l’Università di Pisa. Dopo aver completato i suoi studi a Bologna, sotto la guida del cardinal Mezzofanti, nel 1824 viene nominato professore di Lingue orientali. Mai momento fu più propizio: nello stesso anno Jean François Champollion aveva pubblicato il suo Resoconto del sistema geroglifico degli antichi Egizi, aprendo l’era dell’egittologia moderna. Rosellini, fresco di nomina e contrastato da qualche opposizione accademica, non può esimersi dall’entrare nel fervido dibattito che il volume scatena in tutta Europa: scrive una breve esposizione della teoria del francese sposandola appieno e da quel momento non pensa più che all’Egitto.

La sintesi di Rosellini che illustrava in italiano il sistema geroglifico di Champollion

Non appena Champollion, che aveva intrapreso un viaggio in Italia per studiare alcune collezioni egizie conservate nel nostro paese, giunge a Livorno, corre a presentarsi ed è allora che scocca la seconda scintilla. Champollion, di dieci anni più vecchio, apprezza l’intervento di Rosellini in suo favore e riconosce al pisano un animo leale e una viva intelligenza, una voglia di apprendere mai sazia che, unita ad una naturale modestia, fanno di lui l’allievo ideale.

jeune homme fort instruit et plein d’ardeur… excellent coeur et tête bien meublée, così Champollion descrive Rosellini al fratello, ammirando in quell’allievo che, ricordiamolo, era già professore, la capacità di rimettersi in gioco e tornare studente per amore della scienza.

Ritratto di Champollion eseguito in Egitto nel 1829 da G. Angelelli (Copertina interna Tributo di riconoscenza e d’amore)

E “allievo-professore” rimane anche nei confronti di Champollion …Fin da quando fummo insieme… facemmo tra noi uno scambio: io gli davo esercizi d’ebraico e ricevevo da lui con doppia usura l’insegnamento del copto… E’ tutto in queste parole del pisano il rapporto tra i due: complementare, ma sempre con quel riguardo alla maggiore esperienza da parte del più giovane Rosellini, che davvero non mancherà mai di esprimere a colui che sempre chiamerà Maestro, amore e riconoscenza.

Rosellini e Champollion aveano ambedue sortito dalla natura una inclinazione speciale allo studio delle cose egiziane, aveano pure ambedue un’anima franca, leale, generosa, quindi per quella segreta legge di natura, che lega le anime temprate all’unisono, e che si occupano dei medesimi studi, non eransi anche veduti e già erano amici.

(Biografia del professore Ippolito Rosellini scritta dal suo discepolo e amico D. Giuseppe Bardelli, Firenze 1843)


Spedizione letteraria franco-toscana, dipinto di Giuseppe Angelelli nel 1830, oggi al MAF.

Da quel momento non si lasciano più. Per i successivi quattro anni Rosellini segue Champollion in tutti i suoi viaggi di studio e in seguito si trasferisce a Parigi. Il loro rapporto muta e diviene paritario a livello scientifico e di fraterna amicizia tra i due uomini. Pur nelle mille insidie e difficoltà, dovute all’organizzazione di una spedizione al servizio di due diversi paesi, la loro mutua fiducia non viene mai meno. Progettano e compiono insieme la spedizione che li rende famosi per poi separarsi temporaneamente agli inizi del 1830, di ritorno dal viaggio in Egitto. Stabiliscono di comune accordo di pubblicare insieme i risultati della spedizione, ma una volta pubblicato il piano dell’opera, che comprendeva 10 volumi, Champollion muore, lasciando sulle spalle di Rosellini tutta la responsabilità di rendere pubbliche le loro scoperte. Il peso della pubblicazione è accompagnato dal profondo dolore per la perdita dell’amico.

Pur sappia il mondo che il dolor mio è pari all’amore e alla riconoscenza che di Te serbo nel petto; e sappia ancora che se i modi mi mancano per esprimerlo, colpa è dell’ingegno che a tanto non vale; ma non già del cuore, che tutta ne comprende la cagione e la forza.

(Tributo di riconoscenza e d’amore reso alla onorata memoria di G.F. Champollion il Minore da Ippolito Rosellini, Pisa 1834)

Due tavole, con reperti oggi conservati al MAF, dai Monumenti dell’Egitto e della Nubia di Rosellini.

Nonostante i continui attacchi da parte di Figeac Champollion, fratello maggiore del Decifratore, e di una parte degli studiosi italiani, Rosellini porta avanti l’immane lavoro e, volume dopo volume, prendono corpo I Monumenti dell’Egitto e della Nubia. La prematura morte di Rosellini interrompe l’opera all’ottavo volume: il nono, già pronto, verrà pubblicato postumo, mentre l’ultimo non vedrà mai la luce.

I kouroi Milani… prima di Milani!

Il 26 gennaio del 1854 nasceva a Verona il primo Direttore del Regio museo archeologico di Firenze, Luigi Adriano Milani. In occasione del compleanno di uno degli artefici dell’attuale Museo archeologico di Firenze vogliamo raccontarvi una storia poco nota, legata ai kouroi che ancora oggi portano il suo nome, attraverso le parole degli stessi protagonisti (qui e qui altri approfondimenti).

Luigi Adriano Milani seduto sulla base del tumulo di Casale Marittimo nel Giardino del Museo Archeologico di Firenze

Le due statue dette Apollo e Apollino furono legate indissolubilmente al nome di Luigi Adriano Milani da Antonio Minto, suo successore alla guida del museo, che gli attribuì il merito del riconoscimento dei due marmi greci e il conseguente acquisto dalla collezione di Fabrizio Briganti Bellini a Osimo. Ma come erano finite le due statue in questa collezione privata?

I due kouroi furono rinvenuti probabilmente tra il 1656 e il 1691, in un terreno poco fuori Osimo, di proprietà della mensa vescovile, in un’area popolata già dall’età del Ferro e nella quale si colloca anche una villa romana tardo-repubblicana. La loro prima apparizione risale al 1741, quando il giovane erudito Annibale degli Abbati Olivieri , andando a far visita all’amico monsignor Pompeo Compagnoni, vescovo di Osimo, le vide nella galleria che costeggiava il piacevole giardino del palazzo vescovile. Immediatamente pensò che fossero molto antiche, simili alle statue degli egizi per la rigida postura. Ripartì da Osimo, ma per molto tempo i due fanciulli rimasero impressi nella sua memoria tanto che quaranta anni dopo, quando ormai era un affermato studioso, volle cercar di scoprire qualcosa di più su quelle statue. Si risolse allora a chiederne notizia, e anche un disegno, a Luca Fanciulli, teologo e canonico della cattedrale osimana. Ricevendo la lettera dell’illustre studioso e mecenate pesarese al Fanciulli dovettero tremare le ginocchia. Di queste statue, infatti, non c’era traccia.

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L’Apollo Milani e il disegno inviato dal Fanciulli all’Olivieri

Pian piano il sacerdote indagò e ispezionò tutti i sotterranei e i nascondigli del palazzo vescovile fino a ritrovare i  …rottami di dette statue in un buco di stanza che si stentò ad aprire… e provvide dunque a ripulirle per la polvere e altre sozzure… . Non pago, cercò di capire come mai due statue così belle fossero finite lì. Scoprì, dunque, che venne in testa ad un canonico di farsene padrone; onde accordatosi col Vicario Capitolare di notte tempo le fe’ portar via, e perchè la cosa restasse più occulta, furon fatte passare per la Cattedrale poste sopra due barelle e avvolte con alcune coperte…ma poi sapendosi ch’erano state portate via, ne fu avanzato ricorso a Monsignor Tesoriere, il quale ordinò che si riportassero all’Episcopio nel solito sito, biasimando altamente il pensiero che fu detto avevasi di collocarle nell’atrio del Seminario. Il principale sospettato dello spostamento così rocambolesco è Stefano Bellini, all’epoca rettore del Seminario ospitato nel Palazzo Campana. L’iniziativa fu evidentemente giudicata sospetta e per prevenire altre intemperanze da parte del Bellini, che continuando ad aver la stessa sete (di farsene padrone), e godendo la grazia di Sua Eminenza gliene ha fatta più volte istanza per averle; ma neppure ha avuto il merito di sapere il sito dove stanno. A ben guardare la grazia di cui godeva presso il nuovo vescovo Guido Calcagnini non doveva essere così grande se il Vescovo fece portar via di là le dette statue senza far penetrare ad alcuno dove l’avesse poste costringendo anni dopo il Fanciulli ad una caccia al tesoro per ritrovarle.

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Fotomontaggio che riunisce l’Apollino con la sua testa, realizzato da M. Iozzo in collaborazione con F. Guerrini

Non furono spostamenti indolori: durante il primo tentativo di furto le statue letteralmente persero le teste! Quella dell’Apollo fu poi ricongiunta, mentre quella dell’Apollino, al quale erano state rotte anche le braccia, è rimasta nascosta fino in tempi recentissimi all’interno della collezione di famiglia dei Bellini. Il costernato Fanciulli scrive infatti all’Olivieri: Mi ricordo …benissimo d’averla veduta anni sono quando aveva la testa… ma adesso …manca la testa; e mi vien detto che fu portata via quando seguì il furto e fu fatta divenire acefala quando si dovette restituire insieme all’altra per ordine del Monsignor Tesoriere

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I due fratelli Bellini: a sinistra il vescovo Stefano, a destra Ubaldo

La spregiudicatezza dei due non sfugge al Fanciulli, che tiene a precisare che la statua fu fatta divenire acefala, insinuando dunque una rottura intenzionale, finalizzata all’impossessamento almeno della testa della statua. Passano ancora gli anni, ma Stefano Bellini e il fratello Ubaldo continuano a inseguire le due statue per la loro collezione. Per chiarire meglio l’attitudine familiare al collezionismo dei due fratelli sono eloquenti le parole di Augusto Vernarecci, canonico e studioso  locale, riguardo al patrimonio della città di Fossombrone: “… fu fatale pe’ monumenti forosempronesi che dal 1799 al 1808 fosse vescovo di Fossombrone mons. Stefano Bellini d’Osimo: giacchè il fratello di lui, Luigi (Ubaldo), appassionato antiquario, spinto a spadroneggiare, trasportò nel Museo di famiglia ciò che di meglio trovossi in quegli anni in Fossombrone” (A. Vernarecci, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri).

Nel 1806 il cardinale Guido Calcagnini di fronte all’ennesima richiesta da parte dei due, per i quali il possesso delle statue non è se non vagheggiato, non posseduto chiede una relazione al conte Pietro Alethy sulle statue.

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Lettera del 4 ottobre 1806 con la relazione del conte Pietro Alethy

Il conte non usa mezzi termini: quanto a me io mi farei scrupolo di dar loro quello che non può esser nelle loro mani che per breve età; e che mutando poi di possessione, facilmente muterebbe luogo, e verrebbe a perdersi per Osimo. Auspica invece che le statue vengano donate alla città, della quale illustrano la storia e l’antichità.  La cessione è nuovamente bloccata e Ubaldo Bellini risponde piccato, minimizzando il valore delle sculture per la storia della città, ma quale valore riceverà la città nostra da un marmo ritrovato in una campagna, del quale ignoriamo perfino il soggetto rappresentato… e addiritura  il numero! Una e non due sono le statue; giacchè una di esse (l’Apollino) non può nominarsi tale, non essendo altro, che un frammento senza capo, senza braccia, e senza gambe.

Calcagnini resiste, non così il suo successore, il cardinale Castiglioni, che probabilmente nel 1808 cede le statue ai Bellini, che le trasferiscono nel palazzo di famiglia, di fronte al Vescovado. Nel 1901 i due kouroi si persero per Osimo: Luigi Adriano Milani, riconoscendo immediatamente l’antichità e il valore delle due statue, le acquistò dall’erede dei fratelli Bellini portandole a Firenze, realizzando così i timori espressi dal conte Alethy quasi un secolo prima.

I PROTAGONISTI

Annibale degli Abbati Olivieri (1708-1789): nobiluomo pesarese compì studi Bologna, Pisa e Urbino. I suoi interessi abbracciarono tutti i campi dell’antiquaria e i suoi scritti di archeologia e numismatica lo portarono ad avere un ruolo di primo piano tra gli eruditi del tempo. Scrupoloso studioso, fu anche mecenate della sua città natale Pesaro alla quale donò la sua ricchissima biblioteca e la sua collezione di antichità.

Luca Fanciulli (1728-1804): canonico e teologo della Cattedrale di Osimo. Studiò presso il seminario Campana dove in seguito insegnò teologia. Fu vicario generale del vescovo Compagnoni, del quale fu anche esecutore testamentario. Autore di numerosi scritti si interessò soprattutto delle memorie sacre e profane di Osimo.

Stefano Bellini (1740-1831): sacerdote, rettore del seminario Campana, in seguito vescovo di Fossombrone e Recanati, collezionista di antichità.

Ubaldo Bellini (1746-1842): sacerdote, fratello di Stefano, umanista e numismatico.

NB: tutti corsivi colorati sono tratti dalle missive, dalle opere e dai documenti d’archivio

Per approfondire:
M. Landolfi-G. de Marinis (a cura di), Kouroi Milani. Ritorno ad Osimo, Catalogo della mostra 25 novembre 2000-30 giugno 2001, Roma 2000.
M. Luni (a cura di), I Greci in Adriatico nell’età dei kouroi, Atti del convegno internazionale, Osimo-Urbino 30 giugno-2 luglio 2001, Urbino 2007
M. Luni-M. Cardone, I Kouroi Milani ad Osimo tra Seicento e Settecento, Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, IX-4, 1998, pp. 669-706.

Winckelmann e l’arte etrusca

La mostra “Winckelmann, Firenze e gli Etruschi” al MAF fino a gennaio 2017, racconta attraverso documenti d’epoca e oggetti d’arte il soggiorno fiorentino di Johann Joachim Winckelmann, lo studioso tedesco che a metà del Settecento ha rivoluzionato lo studio dell’arte antica.

Stele fiesolana di Larth Ninies
Stele fiesolana di Larth Ninies

Winckelmann soggiornò a Firenze tra il 1758 e il 1759. Qui ebbe modo di studiare l’arte degli Etruschi, tassello importante per la redazione della sua “Storia dell’Arte presso gli Antichi” nella quale si proponeva di tracciare una storia dell’arte antica a partire dagli Egizi, dai popoli del Vicino Oriente, proseguendo con gli Etruschi e altri popoli italici, per arrivare ai Greci e infine ai Romani. In questo suo mastodontico progetto, dunque, l’arte etrusca aveva un ruolo importante. Per perseguire il suo scopo di studio, durante il soggiorno a Firenze progettò dei viaggi (che poi non compirà) a Volterra, Chiusi, Cortona, Arezzo. Dell’arte etrusca Winckelmann dà un giudizio positivo, legandone il suo sviluppo alle buone condizioni climatiche, geografiche e anche politiche che avrebbero a suo dire influito positivamente sullo sviluppo delle arti: in realtà si tratta di considerazioni che egli trasse dalla lettura delle fonti antiche; la verità è che alla metà del Settecento dell’arte etrusca si sapeva molto poco: lo stesso Winckelmann lamentava che si conosceva pochissimo la statuaria etrusca di grandi dimensioni. Proprio a Firenze, però, lo studioso poté vedere dal vivo due straordinari esempi della statuaria in bronzo etrusca: l’Arringatore e la Chimera di Arezzo.

Secondo Winckelmann questo bronzetto etrusco si colloca nel "I stile"
Secondo Winckelmann questo bronzetto etrusco si colloca nel “I stile”

A proposito dell’arte etrusca, Winckelmann individua 3 stili: genesi, maturità, decadenza. Carattere distintivo del I stile è il contorno duro e tagliente delle opere (egli studia principalmente bronzetti votivi); nel secondo stile etrusco le figure acquistano “miglior forma”, ma mantengono la rigidezza del I stile, restando “senza carattere e senza grazia” e non riuscendo a raggiungere l’armonia delle contemporanee opere greche. Il III stile è caratterizzato dall’imitazione dei modelli greci.

Aldilà dei suoi giudizi e di alcune sue valutazioni che risulteranno sbagliate con il progredire della conoscenza, l’aspetto veramente importante del lavoro di Winckelmann è il fatto che il suo è stato il primo tentativo di storicizzare l’arte etrusca, cosa che prima di allora non era mai stata fatta. Un altro merito di Winckelmann è di aver portato all’attenzione europea l’arte etrusca, grazie alle sue pubblicazioni di rilievo internazionale.

Urnetta cineraria di produzione chiusina. Il rilievo raffigura il duello fratricida tra Eteocle e Polinice, episodio del mito dei Sette contro Tebe
Urnetta cineraria di produzione chiusina. Il rilievo raffigura il duello fratricida tra Eteocle e Polinice, episodio del mito dei Sette contro Tebe

Purtroppo non riuscì a compiere tutti i viaggi che aveva preventivato in terra d’Etruria e non approfondì lo studio di Arringatore e Chimera che pure aveva sottomano a Firenze, ma riuscì a imporre un approccio nuovo allo studio delle opere d’arte etrusca, un approccio di tipo storico e non più antiquario come invece veniva fatto ancora alla metà del XVIII secolo. Per questo, dato che applicò questo metodo di tipo storico allo studio di tutta l’arte antica, non solo etrusca, è considerato il padre dell’Archeologia.

Le gare sportive nell’antica Grecia: non solo Olimpiadi

Le Olimpiadi sono la manifestazione sportiva più importante al mondo. Hanno carattere mondiale, poiché tutte le nazioni della Terra possono partecipare e si svolgono ogni 4 anni. Nelle due settimane di gare la popolazione di ogni stato si concentra a fare il tifo per i propri atleti, qualunque sia la disciplina per la quale gareggiano. Ci sono gli atleti più noti e più amati, quelli meno noti ma ugualmente celebrati. È una grande festa sovranazionale.

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Quando nel 1896 si svolsero le prime Olimpiadi moderne, ad Atene, Pierre Decoubertin volle rievocare proprio lo spirito delle Olimpiadi dell’antica Grecia: anch’esse all’epoca si svolgevano ad intervalli di 4 anni e avevano carattere sovranazionale, tanto che partecipavano sia atleti provenienti dalle varie città stato della Grecia propria che atleti provenienti dalle colonie dell’Italia meridionale e della Sicilia. I vincitori delle gare diventavano famosi, ad essi venivano dedicati componimenti poetici e statue nei santuari.

Le Olimpiadi erano senz’altro la manifestazione sportiva più importante dell’antica Grecia, ma non erano l’unica. Nel mondo greco l’agonismo era fortemente legato alla religione. Le varie póleis, le città-stato della Grecia, organizzavano molti giochi, alcuni dei quali a livello locale, altri di importanza panellenica, ovvero aperti a tutte le altre città. Non si trattava solo di gare sportive, ma di eventi nel corso dei quali si svolgevano anche celebrazioni religiose, processioni, sacrifici. In molti casi, poi, le gare agonistiche erano fatte per celebrare la morte di personaggi importanti: la descrizione dei giochi funebri organizzati da Achille per i funerali di Patroclo nell’Iliade è la più antica testimonianza di competizioni sportive nell’antichità ed è davvero minuziosa: descrive la corsa a piedi e con i carri, il lancio del disco e del giavellotto, il pugilato, la lotta, lo scontro con le armi, il tiro con l’arco.

i giochi funebri in onore di Patroclo rappresentati sul vaso François, Museo Archeologico Nazionale di Firenze
i giochi funebri in onore di Patroclo rappresentati sul vaso François, Museo Archeologico Nazionale di Firenze

Oltre alle Olimpiadi, dunque, nell’antica Grecia esistevano tanti altri Giochi. Vediamo brevemente i principali:

I giochi Panatenaici

L'atleta si veste per la corsa armata - oplitodromìa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale
L’atleta si veste per la corsa armata – oplitodromìa. Firenze, Museo Archeologico Nazionale

Introdotti da uno dei primi re di Atene, Erittonio, inizialmente erano giochi locali, e solo con Pisistrato nel 528 a.C. furono aperti anche agli atleti delle città alleate. Furono poi sospesi per un certo tempo finché non li ripristinò Pericle nel 460 a.C. Chiamati anche Panatenee, erano celebrati in onore di Atena Poliàs, dea protettrice della città. Momento fondamentale di questa festa era la grande processione che coinvolgeva tutta la città e che giungeva fino all’Acropoli, dove le fanciulle di famiglia nobile vestivano con un peplo la statua della dea. Il fregio scolpito a rilievo della cella del Partenone descrive perfettamente questa processione, cui partecipavano le autorità cittadine, i cavalieri e, simbolicamente gli dei. Le feste duravano alcuni giorni; gli agoni sportivi si svolgevano nel quarto, quinto e sesto giorno: erano lo stàdion, ovvero la corsa, il pentathlon, la lotta, il pugilato, il pancrazio, la corsa dei carri, la corsa a cavallo e la corsa in armi (oplitodromìa). Il premio per il vincitore era un’anfora colma di olio chiamata anfora panatenaica. Su di essa da un lato era rappresentata Atena armata di elmo, scudo e lancia e dall’altro la disciplina nella quale l’atleta aveva trionfato. Nel caso dell’anfora panatenaica del nostro museo (di cui abbiamo parlato qui) la disciplina è la corsa col carro tirato da quattro cavalli, il téthrippon, ma esistevano anfore in premio per ogni specialità.

la corsa col carro - téthrippon - sull'anfora panatenaica del Museo Archeologico Nazionale di Firenze
la corsa col carro – téthrippon – sull’anfora panatenaica del Museo Archeologico Nazionale di Firenze

I Giochi Pitici o Delfici

Svoltisi per la prima volta nel 590 a.C., i giochi Pitici si svolgevano a Delfi, dove sorgeva il santuario di Apollo Python, presso il quale si recavano tutti coloro che volevano consultare l’oracolo prima di compiere qualsiasi impresa. Era un luogo di grande importanza, non solo religiosa, ma anche politica, per tutta la Grecia. I Giochi, che avevano valenza panellenica, ovvero erano aperti a tutti i Greci, non erano solo atletici, ma prevedevano anche gare di musica, di drammaturgia e di poesia. Anche questi Giochi si svolgevano ogni 4 anni, ad agosto, nel terzo anno di ciascuna olimpiade e prevedevano gare di atletica e corse di cavalli.

I Giochi Istmici

Scena di lotta su uno stamnos, vaso contenitore di liquidi, dipinto dal pittore di Troilos (490-480 a.C.). Firenze, Museo Archeologico Nazionale
Scena di lotta su uno stamnos, contenitore per liquidi, dipinto dal pittore di Troilos (490-480 a.C.). Firenze, Museo Archeologico Nazionale

Si svolgevano a Corinto, sull’Istmo che unisce il continente alla penisola del Peloponneso. L’istituzione di questi giochi è molto antica e si perde nel mito. Secondo alcuni scrittori antichi i primi a gareggiare nei Giochi Istmici furono addirittura gli dei Poseidone e Eolo, mentre secondo altri li fondò l’eroe Teseo. Erano gare molto frequentate, che richiamavano un grandissimo pubblico e una grandissima partecipazione da tutta la Grecia e non solo. Tuttavia, non raggiunsero mai il livello di importanza dei giochi Olimpici. I Giochi Istimici dovettero essere interrotti nel 146 a.C., anno in cui i Romani distrussero la città di Corinto e ripresero solo quando, un secolo dopo, Giulio Cesare fece ricostruire la città.

Questi erano i principali giochi panellenici che si svolgevano in Grecia e che coinvolgevano e impegnavano attivamente le poleis. L’atleta che gareggiava rappresentava la sua polis e se vinceva veniva onorato e celebrato nella sua città. Non esistevano gare di squadra nell’antichità: era l’atleta singolo che si misurava con se stesso e che vinceva senza bisogno di altri. C’era un solo vincitore, non esisteva un secondo o un terzo classificato. E soprattutto il detto di Pierre Decoubertin, promotore delle Olimpiadi moderne, “L’importante è partecipare” era totalmente estraneo ai Greci: per loro l’importante era vincere, la vittoria dava la gloria, accostava agli dei. E come gli dei, immortali, alcuni nomi e gesta di atleti greci sono giunti fino a noi, grazie alle fonti antiche che ce li hanno trasmessi e alla scoperte archeologiche che ce li hanno restituiti.

30 giugno 1816: inizia l’avventura archeologica di Belzoni

Esattamente duecento anni fa iniziava in questo giorno l’avventura archeologica di un appassionato viaggiatore, esperto di idraulica e studioso di arte antica: Giovan Battista Belzoni, ex monaco, commerciante di oggetti sacri, fenomeno da baraccone nei teatri inglesi e massone.

Belzoni ritratto nel frontespizio della sua opera (foto http://digital.library.mcgill.ca/writing_company/fullrecord.php?ID=10575)
Belzoni ritratto nel frontespizio della sua opera (foto http://digital.library.mcgill.ca/writing_company/fullrecord.php?ID=10575)

In Egitto era arrivato la prima volta in cerca di fortuna vendendo le sue competenze idrauliche per un nuovo programma agricolo; al Cairo conobbe la maestosità dell’arte egizia e ne rimase profondamente affascinato. Riuscì ad aggiudicarsi il lavoro di spostamento del grande busto di Ramesse II da Luxor alle acque del Nilo, dove avrebbe potuto essere imbarcato alla volta dell’Inghilterra con destinazione il British Museum. L’impresa di spostamento si concluse in soli quindici giorni, al termine dei quali Belzoni si avventurò più a sud in esplorazione delle rovine archeologiche, e compì scavi a Karnak e nella Valle dei Re.

Lo spostamento del busto di Ramesse II (foto http://www.albanyinstitute.org/details/items/plates-illustrative-of-the-researches-and-operations-of-g-belzon.html)
Lo spostamento del busto di Ramesse II (foto http://www.albanyinstitute.org/details/items/plates-illustrative-of-the-researches-and-operations-of-g-belzon.html)

Tornato al Cairo al termine del 1816 preparò subito un secondo viaggio per l’anno successivo. Il 18 ottobre 1817 scoprì la tomba di Seti I (1289-1279 a.C.), il padre di Ramesse II, decorata da splendidi rilievi policromi: di essi Belzoni fece realizzare tutti i calchi grafici con l’intenzione di realizzare in Inghilterra una ricostruzione della tomba. Quando però la tomba fu visitata nuovamente da una spedizione archeologica, quella guidata da Champollion e Rosellini, si decise per la brutale asportazione dei rilievi, parte dei quali sono oggi conservati al Louvre e al MAF.

Il pilastro della tomba d Seti I: la parte a sinistra è esposta al Museo Egizio di Firenze, quella a destra è invece al Louvre
Il pilastro della tomba d Seti I: la parte a sinistra è esposta al Museo Egizio di Firenze, quella a destra è invece al Louvre

Nel rilievo è raffigurata Hathor, dea madre e dell’amore, in atto di accogliere il defunto Seti; la dea, con gli attributi che la caratterizzano, il disco solare e le corna bovine, stringe la mano del faraone e gli porge una collana. Nella rappresentazione si possono notare i dettagli dell’abbigliamento del tempo, con i monili e gli abiti tessuti di stoffe leggere e trasparenti, così come le ampie parrucche che indossavano sia gli uomini che le donne.

Nel 1818 ripartì per un terzo viaggio in Egitto, accompagnato dal medico e disegnatore Alessandro Ricci, lo stesso che dieci anni dopo si accoderà al seguito di Rosellini e Champollion. Continuò poi a esplorare l’Africa e vi trovò la morte nel 1823, dopo essere stato accolto trionfalmente in Europa per le sue scoperte.

Infine, una curiosità. Per quanto forse non troppo nota, la figura di Belzoni è più legata di quanto si possa pensare all’archeologia così come l’immaginario comune ce la rappresenta: fu proprio l’avventuriero padovano, infatti, ad ispirare il regista e produttore G. Lucas per uno dei suoi più celebri personaggi…

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20/05/1829: a Tebe viene scoperta la tomba di Tjesraperet

Il sarcofago interno di Tjesraperet
Il sarcofago interno di Tjesraperet

Tjesraperet, chi era costei?

Siamo in Egitto, a Tebe, il 20 maggio 1829, durante la Spedizione archeologica franco-toscana in Egitto, che vide affiancati un’équipe di studiosi italiani, al seguito dell’egittologo pisano Ippolito Rosellini, e un’équipe di francesi, con a capo Jean-François Champollion, l’egittologo passato alla storia per aver decifrato per primo i geroglifici.

Dopo pranzo Abu-Sakkarah venne ad avvertirci che gli scavatori avevano trovato una tomba intatta” scrive Rosellini nel suo Giornale, e continua, raccontando la sua discesa nella tomba: “La bocca dello scavo era ancora chiusa; scesi nel pozzo mentre l’aprivano (…) Non poteva scendersi che incomodissimamente puntando cioè spalle e braccia alle pareti, mentre, secondo il solito, cadevano sempre giù sassi e terra (…). La polvere, il caldo, e l’orrore del luogo, toglievano il respiro.

La tomba appena scoperta è quella di Tjesraperet, nutrice della figlia del faraone Taharqa, XXV dinastia. Il ritrovamento è eccezionale, perché la tomba è intatta, inviolata, e restituisce un corredo unico per la qualità e la tipologia dei manufatti. Fin da subito Rosellini fa eseguire un disegno dei principali oggetti del corredo, che appartengono al mondo femminile della cosmesi e della cura della persona: uno specchio all’interno della sua custodia e un vasetto da kohl col suo bastoncino.

Il vasetto per il kohl col suo bastoncino, corredo di Tjesraperet
Il vasetto per il kohl col suo bastoncino, corredo di Tjesraperet

A Firenze sono esposti il sarcofago esterno e quello interno della nutrice, in legno dipinto, una parte di un secondo coperchio di sarcofago, lo specchio nella sua custodia, e il vasetto per il kohl col suo bastoncino. Nel racconto che Rosellini fa della scoperta, però, l’elenco degli oggetti rinvenuti è molto più ampio. Una parte di essi infatti si trova a Parigi, al Louvre. Com’è possibile?

Come vi abbiamo raccontato in un altro post, la spedizione archeologica in Egitto che ha portato alla formazione della collezione del nostro Museo Egizio, fu condotta in comune da Ippolito Rosellini per il Granducato di Toscana e da Jean-François Champollion per la Francia negli anni 1828-1829. I due egittologi si spartirono, alla fine della missione, reperti e interi corredi in modo che ciascuno riportasse in patria materiale archeologico di pari valore e importanza, senza tenere troppo conto di preservare i contesti: una pratica, questa, che ha complicato non poco i tentativi degli studiosi successivi di ricostruire i corredi delle tombe che i due egittologi scavarono insieme. Il momento della suddivisione degli oggetti è ben illustrato dal dipinto che accoglie i visitatori all’ingresso del nostro museo egizio: in esso, Rosellini e Champollion stanno osservando un mucchio di materiali egizi posti davanti a loro. E non è un caso che tra gli oggetti rappresentati ci sia proprio lo specchio di Tjesraperet.

Lo specchio del corredo della nutrice della figlia del faraone Taharqa
Lo specchio del corredo della nutrice della figlia del faraone Taharqa

Lo specchio ha il disco in bronzo dorato, un’elegante immanicatura in legno sagomato decorata con due chiodi di legno e lamina dorata; è ancora custodito all’interno di un astuccio in legno della sua stessa forma, imbottito con un pezzo di tessuto, a protezione del disco di bronzo.

Il sarcofago di Tjesraperet, in legno dipinto, è mummiforme, riprende cioè la forma della mummia; la testa ha la parrucca, decorata con la spoglia di avvoltoio e l’immagine della dea Neftis. Sul petto, sotto l’ampio pettorale è rappresentata la dea Nut, con le braccia/ali spiegate a proteggere la defunta. La parte delle gambe è coperta da fitte iscrizioni intervallate dalle figure di 12 divinità protettrici; al centro è dipinta la mummia di Tjesraperet, stesa sul letto funerario, sulla quale volteggia l’anima Ba, a forma di uccello con testa umana, mentre al di sotto del letto si trovano i 4 vasi canopi. Il sarcofago è posto all’interno di un sarcofago più grande, in legno, a cassa rettangolare con il coperchio a volta e quattro pilastri agli angoli, anch’esso fittamente decorato.

Il sarcofago esterno della nutrice Tjesraperet
Il sarcofago esterno della nutrice Tjesraperet

Chi era esattamente Tjesraperet? La nutrice della figlia del faraone Taharqa apparteneva ad una classe sociale elevata, legata all’ambiente di corte. Definita “Signora della Casa” (il titolo con cui erano indicate tutte le donne, per il loro ruolo di responsabilità nella conduzione della vita domestica e nella gestione della casa), era sepolta insieme a Djedthtotefankh, probabilmente il marito, che apparteneva invece al clero tebano del quale al Museo di Firenze è esposta la stele funeraria, mentre è andato perduto il sarcofago esterno.

Giacomo Caputo: un protagonista dell’archeologia in Toscana nel Dopoguerra

Giacomo Caputo
Giacomo Caputo

L’archeologo Giacomo Caputo è stato a capo della Soprintendenza Archeologica della Toscana negli anni 1951-1966. La sua attività come Soprintendente in Toscana è stata oggetto di una comunicazione da parte di Pamela Gambogi (Soprintendenza Archeologia Toscana) in occasione del Convegno “Giacomo Caputo, un pioniere dell’archeologia del Novecento“, svoltosi a Palma di Montichiaro (AG), paese natale di quest’archeologo che con il suo lavoro ha davvero dato grande impulso alla ricerca archeologica non solo in Italia, ma in tutto il Mediterraneo.

Giacomo Caputo è noto in ambiente archeologico innanzitutto per la scoperta, quando nei primi anni della sua attività lavorava presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, del villaggio dell’Età del Bronzo di Poliochni, sull’isola di Lemno. Ma il suo interesse maggiore fu per l’Africa Settentrionale, nella quale diresse dal 1935 gli scavi in Cirenaica e a seguire in tutta la Libia. Qui egli scavò e fece restaurare i siti di Tolemaide, Leptis Magna, Tripoli, Sabratha, Cirene.

Cogliamo allora l’occasione per raccontarvi la sua attività in Toscana, e per farlo riportiamo le parole del quotidiano La Nazione del 3 ottobre 1966, quando Caputo andò in pensione, che descrive benissimo la sua carriera e le sue scoperte:

“[La sua attività in Toscana] fu multiforme e costantemente ispirata ad un’impareggiabile larghezza di idee e modernità di criteri scientifici. Nei restauri dei monumenti, da lui particolarmente curati, Caputo impose sempre la massima fedeltà al documento. Ecco come, nelle mura di Saturnia e nelle grandi tombe di Vetulonia, si rimettono a posto i grossi blocchi evitando contrafforti e sostegni posticci; le antiche are di Fiesole vengono liberate dalle sovrastrutture, sistemato il teatro, restaurati i templi sovrapposti e la gradinata, eseguito per la prima volta un grande rilievo complessivo della zona archeologica.

L'area archeologica di Fiesole
L’area archeologica di Fiesole

Si deve inoltre a Giacomo Caputo la ripresa degli scavi di Roselle e di quelli all’interno di Vetulonia. La definizione di un programma preciso, volto piuttosto a risolvere alcuni grandi problemi che ad accumulare oggetti, è fondamentalmente il metodo che gli permise di chiarire la presenza degli etruschi sulla destra dell’Arno e i loro rapporti con i valichi appennini, di scoprire la grande tomba a Tholos di Quinto Fiorentino, l’identificazione di tutta una serie di tholoi e di tombe in corso di scavo e la delimitazione dei relativi abitati. Per quanto riguarda i musei è noto come il professor Caputo abbia rinnovato quello di Siena, sistemato quelli di Arezzo e di Fiesole, organizzato l’Antiquarium di Asciano, reso statale quello di Chiusi. In questi ultimi tempi il lavoro di Caputo e la sua équipe ha concentrato i suoi sforzi sull’ “Archeologico” di Firenze: rinnovamento graduale delle sale, sistemazione della loggia con le sculture di Luni, liberazione di altre sale del palazzo di Via Capponi, trasformazione del terzo piano che accoglie ora una grande biblioteca specializzata e la biblioteca dell’Istituto di Studi Etruschi. Né si può dimenticare l’opera svolta da Caputo per la protezione dei monumenti nonché le mostre da lui ideate a scopo divulgativo (…). Quanto agli studi etruschi, l’opera di Caputo è completata da quella che egli svolge come segretario generale dell’Istituto di Studi Etruschi e come presidente della Fondazione Faina di Orvieto e, sul piano dell’archeologia nazionale, resta importante il suo contributo sia come membro corrispondente dell’Accademia dei Lincei, sia come membro del Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti; elezione, quest’ultima, che gli permette e gli permetterà di non lasciare il raggio dell’archeologia etrusca di Firenze e della Toscana.”

Per quanto riguarda l’Archeologico di Firenze, Caputo fin da subito si adoperò per una migliore immagine del museo: pertanto chiese al Comando dei Vigili che fosse resa pedonale l’area antistante l’ingresso del museo, onde evitare che le auto vi parcheggiassero davanti, e volle curare il Giardino, chiedendo fondi al ministero, facendo leva sul fatto che per la gente era un bel luogo di ristoro oltre che prezioso per i materiali archeologici in esso conservati, le tombe etrusche e le sculture romane. Il suo impegno per l’abbellimento gli procurò anche un’ammirato ringraziamento da parte del sindaco del tempo, Piero Bargellini:

Biglietto di ringraziamento del sindaco Piero Bargellini al Soprintendente Caputo per il bell'aspetto del Giardino del museo
Biglietto di ringraziamento del sindaco Piero Bargellini al Soprintendente Caputo per il bell’aspetto del Giardino del museo

Organizzò due mostre a Firenze dedicate agli Etruschi con l’intento di avvicinare il grande pubblico all’archeologia e al Museo Archeologico. Usando le parole stesse di Caputo, dice che tali mostre servono per soddisfare “un’educazione che si va facendo più evidente nel pubblico il quale, per buona fortuna, allarga, con crescente preparazione, il campo dei suoi interessi mentali“. I due eventi ebbero un forte impatto sulla comunità fiorentina, come risaltano i giornali dell’epoca: merito di un’impostazione che metteva al centro il visitatore, con un intento didattico che comunque non inficiava l’impatto emotivo; l’allestimento della mostra dedicata alle urne volterrane, per esempio, imitava l’atmosfera di una monumentale tomba etrusca gentilizia, ricca di urne. Per i visitatori del Museo Archeologico, invece, Caputo fece realizzare delle piccole guide gratuite dedicate ad alcuni settori del museo.

Per quanto riguarda invece la scoperta delle tombe della Mula e della Montagnola a Quinto Fiorentino, è egli stesso a scrivere la voce relativa sull’Enciclopedia dell’Arte Antica, reperibile anche online.

Tomba di Quinto Fiorentino scavata da Giacomo Caputo
Tomba di Quinto Fiorentino scavata da Giacomo Caputo

Giacomo Caputo va in pensione il 1° ottobre del 1966 al compimento dei 65 anni di età. Lascia un Museo Archeologico di Firenze rinnovato, finalmente dopo tutta la lunga fase di lavori del dopoguerra. Il museo aveva riaperto i battenti nel 1950, un anno prima che Caputo diventasse Soprintendente alle Antichità d’Etruria. Ma appena un mese dopo quest’articolo che abbiamo riportato, tutto il gran lavoro condotto nel Giardino e al piano terra del Museo viene spazzato via dall’Alluvione di Firenze. Toccherà al suo successore, Guglielmo Maetzke, sobbarcarsi la responsabilità dei lunghi lavori di recupero dei materiali e delle strutture del Museo.

4/11/1966: l'alluvione di Firenze: i danni al Museo e alla Soprintendenza
4/11/1966: l’alluvione di Firenze: i danni al Museo e alla Soprintendenza

27 novembre 1829: si conclude la Missione archeologica franco-toscana in Egitto

Ippolito Rosellini non era uomo da farsi dire di no. Era pisano, innanzitutto, per cui testardo e tenace. Ed era un appassionato. Egittologo, aveva seguito con attenzione e ammirazione l’interpretazione del geroglifico, la scrittura egizia, da parte del giovane egittologo francese Jean-François Champollion.

Il ritratto di Ippolito Roseliini presso lo scalone all'ingresso del Museo Egizio di Firenze
Il ritratto di Ippolito Roseliini presso lo scalone all’ingresso del Museo Egizio di Firenze

I due si erano conosciuti, intorno al 1826, ed era nata un’amicizia fatta di collaborazione e di proficuo scambio di esperienze e di informazioni. Insieme visitano alcune collezioni egizie sparse per la penisola italiana e intanto prende corpo nel giovane studioso pisano, l’idea di una spedizione archeologica in Egitto.

Il Granduca di Toscana Pietro Leopoldo accoglie con favore la proposta di Rosellini di finanziare una spedizione franco-toscana lungo il Nilo; Champollion per parte sua voleva visitare l’Egitto per sperimentare di persona la validità della sua interpretazione dei geroglifici, mentre Rosellini… beh, quale egittologo non sognerebbe di recarsi in Egitto?

La spedizione viene così progettata fin dal 1827: prevede che Rosellini sia messo a capo di una commissione toscana che affiancherà quella francese diretta da Champollion, con lo scopo di far eseguire i disegni dei monumenti egiziani sconosciuti o non ancora documentati e di eseguire degli scavi al fine di “arricchire i Musei dello Stato”.

La spedizione prende il via solo nell’anno successivo. Parte da Tolone nel luglio 1828 e sbarca ad Alessandria d’Egitto il 18 agosto 1828; dura 15 mesi, durante i quali i due egittologi con il loro gruppo di disegnatori, botanici, architetti, inservienti risale il Nilo toccando quelle che già all’epoca erano le principali tappe dell’archeologia egizia: Giza, Saqqara, Menfi, Tebe, Philae, la Nubia. In quei 15 mesi fu prodotta una messe infinita di documenti, tra note, copie di testi geroglifici, disegni, cui vanno a sommarsi ben 76 casse di oggetti antichi. Quanto a questi, l’accordo fra i due direttori della spedizione prevedeva che ciascuno avrebbe dovuto raccogliere materiale archeologico di pari valore e importanza: così avvenne che ad ogni ritrovamento veniva deciso a quale delle due missioni assegnare un oggetto o un corredo, cercando di mantenere equilibrio ed eguaglianza nelle assegnazioni. Questo comportò, ahimè, delle spartizioni che oggi possiamo tranquillamente definire obbrobriose; non solo i corredi furono smembrati, suddivisi tra il Louvre di Parigi e il futuro Museo Egizio di Firenze, ma anche i monumenti furono sezionati: il più eclatante di tutti è la tomba di Seti I nella Valle dei Re:

Il pilastro della tomba d Seti I: la parte a sinistra è esposta al Museo Egizio di Firenze, quella a destra è invece al Louvre
Il pilastro della tomba d Seti I: la parte a sinistra è esposta al Museo Egizio di Firenze, quella a destra è invece al Louvre

In totale Ippolito Rosellini riportò quasi 2000 reperti dall’Egitto. Tra i reperti più interessanti si annoverano il sarcofago in pietra del vizir Bakenrenef (oggi nella sala IX), il doppio sarcofago in legno della nutrice della figlia del faraone Taharqa completo del corredo (oggi nella sala VIII), il carro in legno, che fu rinvenuto smontato in una tomba della necropoli di Tebe e che oggi, finalmente, è stato attribuito a Kenamun, fratello del faraone Amenofi II Amenofi II (1424-1398 a.C.) (oggi nella sala III); e ancora il bassorilievo dipinto tagliato dalla tomba di Seti I, quello rappresentante la dea Maat (oggi entrambi nella sala V) e il bassorilievo degli scribi, proveniente dalla tomba del faraone Horembeb a Saqqara (oggi nella sala VII).

Il rilievo con la dea Maat simbolo del MEF
Il rilievo con la dea Maat simbolo del MEF

La spedizione, durata un anno e mezzo circa, fece ritorno nell’autunno del 1829. In particolare, la missione italiana sbarcò a Livorno il 27 novembre nel 1829. Rosellini già nel 1830 allestì una mostra presso l’Accademia di Arti e Mestieri di S.Caterina (in via Cavour) nella quale mostrava al pubblico i reperti recuperati in Egitto. È in questo momento e in questo luogo che può dirsi costituito il primo nucleo del futuro Museo Egizio di Firenze.

Documento ufficiale della spedizione franco-toscana in Egitto rimane, all’ingresso del Museo Egizio di Firenze, il grande dipinto, opera di Giuseppe Angelelli: in esso, sullo sfondo di una grandiosa, imponente, ma al tempo stesso romantica Luxor, si sistemano i protagonisti di questa avventura in terra d’Egitto: in piedi, col mantello bianco e la barba rossa, è Ippolito Rosellini; accanto a lui, seduto con la scimitarra, è Jean-François Champollion; tra gli altri personaggi è degno di menzione il povero Alessandro Ricci, medico e disegnatore di Siena, che è ritratto di spalle col calcagno scoperto, in quanto era stato punto da uno scorpione. Proprio in conseguenza di questa ferita morì dopo il rientro in patria. Davanti ai due protagonisti del dipinto sono raggruppati alcuni reperti egizi. Tra di essi spicca uno specchio nella sua custodia, facilmente riconoscibile in quello del corredo della nutrice della figlia del faraone Taharqa (esposto tutt’oggi nella sala VIII).

La spedizione franco-toscana in Egitto, Giuseppe Angelelli, Firenze Museo Egizio
La spedizione franco-toscana in Egitto, Giuseppe Angelelli, Firenze Museo Egizio

È grazie a Ippolito Rosellini, alla sua tenace determinazione e alla sua volontà se la missione franco-toscana in Egitto fu organizzata. Il 27 novembre 1829 segna la conclusione della spedizione in Egitto, e l’inizio del futuro Museo Egizio di Firenze.

12/10/1492: l’Europa scopre il Mondo che non c’era

La data che oggi ricorre, il 12 ottobre, è di quelle che si imparano fin da bambini, una data che segna l’inizio di una nuova epoca storica, l’incontro e la vicendevole scoperta di due civiltà: la scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo.

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I viaggi di Colombo (foto http://www.storiologia.it/universale/americ/cap109c.htm)

In realtà l’abile navigatore genovese stava cercando di arrivare nell’Estremo Oriente passando da Ovest, giocando sul fatto che la terra era rotonda. Intuizione geniale, se non fosse che incappò in un continente totalmente sconosciuto che si frapponeva tra l’Oceano atlantico e l’Oriente. Lui non se ne rese mai conto, pensò davvero di essere arrivato nel Levante, ma le conseguenze dei suoi viaggi furono incredibili e diedero il via alla grande stagione delle esplorazioni geografiche. Tra i vari esploratori che gli succedettero, Amerigo Vespucci, fiorentino, per primo si rese conto di essere giunto su un nuovo continente, che da lui prese il nome di America. Un mondo nuovo era definitivamente stato scoperto, un mondo di cui si ignorava l’esistenza. Il Mondo che non c’era aspettava soltanto di essere esplorato. E in tanti partirono dall’Europa, per conoscerlo.

Ma perché parlare della scoperta dell’America? Cosa c’entra con le collezioni archeologiche di Firenze?

Maschera in oro, cultura Lambayeque, Perù; è stata scelta come simbolo della mostra "Il mondo che non c'era"
Maschera in oro, cultura Lambayeque, Perù; è stata scelta come simbolo della mostra “Il mondo che non c’era”

Un indizio è la gigantesca riproduzione di una maschera funebre peruviana in lamina d’oro che troneggia all’ingresso del museo, porta virtuale per la mostra “Il mondo che non c’era”, dedicata proprio all’arte dell’America centro-meridionale di epoca precolombiana e ospitata al Museo Archeologico Nazionale di Firenze fino al 16 marzo 2016. Il collegamento, però, può spingersi oltre: i Medici, infatti, proprio coloro che hanno iniziato a collezionare antichità dando origine al nucleo delle raccolte archeologiche cittadine, furono tra i primi anche a raccogliere stranezze e oggetti preziosi che venivano portati dal Nuovo Mondo. Gli “exotica” giunti per stupire le corti europee erano piante, animali, oggetti (primi tra tutti quelli in oro) e purtroppo persino uomini; nei gabinetti delle curiosità si raccoglievano mantelli di piume, monili, armi indigene: qualcosa arrivò anche nello Studiolo dei Medici, ed oggi è confluito nel Museo di Storia Naturale, Antropologia e Etnologia e nel Museo degli Argenti.

Montezuma
Ritratto di Montezuma appartenuto alle collezioni medicee

Tra gli oggetti giunti a Firenze è anche una piccolissima maschera in giadeite che è conservata tra le gemme del Museo Archeologico di Firenze, un fine prodotto di arte azteca. Gli Aztechi vissero nel Messico centrale tra il 1200 e il 1521 d.C.; l’ultimo loro grande sovrano, che subì la definitiva sconfitta da parte degli Spagnoli, fu Montezuma II. La testina dell’Archeologico una volta  arrivata a Firenze fu montata su un ovale in rame e le furono aggiunti due rubini al posto degli occhi. Il suo aspetto attuale, così vivace, è dunque il frutto di un’integrazione, e non il suo aspetto originale.

testina atzeca, collezione Medici, Firenze Museo Archeologico Nazionale
Testina atzeca, collezione Medici, Firenze Museo Archeologico Nazionale

Gli oggetti centroamericani e sudamericani appartenenti alla collezione Medici non sono giunti per caso, ma a seguito di una spedizione che il Granducato di Toscana volle e finanziò nel 1608: la cosiddetta Spedizione Thornton. Il capitano inglese Robert Thornton fu incaricato di organizzare una spedizione nel Brasile Settentrionale, che avesse come scopo quello di sviluppare il commercio di legname pregiato tra l’Amazzonia e l’Italia, creando una base coloniale toscana tra i possedimenti spagnoli e portoghesi lungo la costa atlantica brasiliana. Il viaggio di Thornton durò un anno, dopodiché nel 1609 il galeone fece rientro a Livorno, portando con sé un carico di oggetti esotici e preziosi, di animali e di indigeni. Ferdinando I, però, era morto da pochi mesi, e il suo sogno di creare un avamposto commerciale in Brasile era scomparso con lui: Cosimo II, suo successore, preferì non impiegare risorse ed energie per un’impresa così lontana e nebulosa. Finisce dunque così, con un’esplorazione lungo il fiume Orinoco e il Rio delle Amazzoni e con qualche cassa di oggetti bizzarri con i quali arricchire le collezioni di mirabilia medicee, l’incontro di Firenze con il Nuovo Mondo.

Incontro che oggi al MAF si rinnova, con la mostra “Il Mondo che non c’era”.

Maschera in onice verde, Messico, cultura Teotihuacan, Collezione Medicea, ora Museo degli Argenti
Maschera in onice verde, Messico, cultura Teotihuacan, Collezione Medicea, ora Museo degli Argenti

2 aprile 1950: riapre il Museo Archeologico Nazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale

Mentre l’indefessa attività degli archeologi si esercita vittoriosamente a dissotterrare e a decifrare i resti dell’antichissima civiltà dell’Oriente, dell’Egitto, della Siria, di Creta, non si arresta il lavoro tenace della scienza attorno all’insoluto problema etrusco“.

Con queste parole apriva il 24 febbraio 1926 l’articolo “Il Museo Archeologico di Firenze com’è e come sarà“, scritto dall’archeologo Doro Levi il quale, dopo aver tracciato, nei toni enfatici tipici di quegli anni, un’ampia panoramica della collezione museale, passava a descrivere i lavori che da lì in avanti avrebbero riguardato il Museo, lavori di ristrutturazione, ampliamento, nuovo allestimento.

L'Articolo de Il Nuovo Giornale del 1926 dedicato agli interventi di ampliamento del Regio Museo alle Antichità d'Etruria
L’Articolo de Il Nuovo Giornale del 24.2.1926 dedicato agli interventi di ampliamento del Museo

Punto focale del grande rinnovamento del Museo è l’acquisto del Palazzo Ex-Innocenti che affaccia su Piazza SS. Annunziata. Da qui avverrà il nuovo ingresso al Museo, motivo per cui si rende necessario modificare totalmente il percorso di visita, quindi ripensare l’allestimento, soprattutto del Museo Topografico d’Etruria.

Il Palazzo non è di proprietà statale, pertanto negli anni ’30 si avviano tutte le pratiche necessarie all’acquisizione al demanio e all’acquisto da parte dello Stato. Il procedimento ha inizio nel 1934; tra perizie e preventivi nel 1937 il Ministero non ha ancora deciso se acquistare o meno l’immobile; solo nel 1938, finalmente, esprime parere favorevole. Finalmente il 29 novembre 1940 viene stipulato l’atto di compravendita e il 29 settembre 1941 l’edificio passa per il tramite del demanio in consegna al Ministero dell’Educazione Nazionale e quindi alla Soprintendenza per le Antichità d’Etruria.

Prospetto del Palazzo Innocenti, in vista dell'acquisizione al Museo
Prospetto del Palazzo Innocenti, in vista dell’acquisizione al Museo

Inutile dire che con la Guerra tutto rimane incompiuto: il Museo è chiuso al pubblico, i lavori sono sospesi, è sospeso il pagamento dell’ultima rata. Durante la guerra il Museo non subisce particolari danni, le sue opere sono al sicuro; sale agli onori della cronaca solo durante i giorni della Battaglia di Firenze, e alla fine della guerra si ritrova a fare i conti (per fortuna relativamente pochi), con la difficoltà da un lato di ristrutturare ciò che la guerra ha danneggiato, e dall’altro di riprendere i lavori di riallestimento laddove si erano interrotti. L’acquisto dell’edificio Ex-Innocenti viene saldato il 26 ottobre 1945.

Il carteggio che segue dal 1946 in avanti tra la Soprintendenza alle Antichità d’Etruria, nella persona del Soprintendente Antonio Minto, e la Direzione Generale alle Antichità del Ministero della Pubblica Istruzione è un continuo rimpallo di responsabilità tra la Direzione Generale che chiede di velocizzare i lavori per consentire al più presto l’apertura di uno tra i musei archeologici ritenuti più importanti d’Italia, la Soprintendenza, che “accusa” il Genio Civile di essere in ritardo sui lavori, e il Genio Civile che risponde di avere lavori più urgenti da fare: la guerra si è appena conclusa, del resto, e sono molte le ricostruzioni di edifici e opere pubbliche di cui Firenze necessita. Inoltre i fondi a disposizione sono sempre troppo pochi. E almeno su questo aspetto sono tutti d’accordo. Ne è consapevole lo stesso soprintendente Antonio Minto il quale, rispondendo ad un sollecito del Ministero scrive nel 1946:

“Il progetto di costruzione di un nuovo ingresso dal lato di Piazza SS. Annunziata fu approvato fin dal 1925 e in tutti questi anni si è provveduto ad ordinare le collezioni archeologiche in vista di questo nuovo orientamento. Non è quindi più possibile riaprire nemmeno provvisoriamente il vecchio ingresso (…). D’altra parte la cittadinanza fiorentina, per prima, e tutti gli studiosi e visitatori italiani richiedono, con tono di protesta, che esso venga finalmente riaperto. L’Ufficio del Genio Civile di Firenze è oberato attualmente di lavori che, per loro natura, rivestono per esso carattere di assoluta urgenza e che, pertanto, nonostante tutto l’interessamento, l’estensione in forma esecutiva del progetto di massima non potrà essere attuata che con molto ritardo.”

Se sulle prime Antonio Minto giustifica le scelte del Genio Civile, in un secondo tempo il ritardo lo irrita, e se ne lamenta con la Direzione Generale alle Antichità e Belle Arti:

“(…) Com’è ben noto è da più di un ventennio che le raccolte archeologiche fiorentine attendono questa loro sistemazione ed il cattivo stato [del museo] costituisce una visione poco edificante nel cuore della città, in una piazza monumentale com’è quella della SS. Annunziata.”

E in effetti il ritardo nell’apertura del Museo colpisce l’opinione pubblica: ne parla La Nazione, in un articolo del 23 febbraio 1948: “Auguriamoci che davvero la nostra città possa, quale capitale della Regione Toscana, attuare nel campo degli studi archeologici questo rinnovamento”.

Targa dedicata ad Antonio Minto e al suo operato per l'ampliamento del Museo
Targa dedicata ad Antonio Minto e al suo operato per l’ampliamento del Museo

Il museo riapre i battenti, finalmente, il 2 aprile 1950. L’apertura, su piazza SS. Annunziata 9b, è limitata al solo Museo Topografico dell’Etruria, che già da solo consta di 41 sale. Le altre sezioni invece restano ancora chiuse per penuria di personale ed aprono solo agli studiosi che ne fanno richiesta e compatibilmente con la disponibilità di personale.

L’ultimo ostacolo all’apertura del Museo dal nuovo ingresso su P.za SS. Annunziata è un parcheggio di biciclette, che staziona davanti al portone. Con una richiesta al sindaco di Firenze da parte del Soprintendente Minto, di rimuovere definitivamente questo parcheggio, si chiude definitivamente l’epopea della riapertura del Museo.