Ricordiamo oggi la professoressa Edda Bresciani, professore emerito dell’Università di Pisa e membro dell’Ademia dei Lincei ma anche personalità certamente molto significativa per il “Museo Egizio” di Firenze, recentemente scomparsa. Durante la sua lunga carriera ha dedicato studi e articoli a Ippolito Rosellini e alla spedizione franco-toscana in Egitto, durante la quale furono trovati tanti dei reperti oggi conservati al Museo.
Edda Bresciani
Maria Cristina Guidotti, per tanti anni curatrice del “Museo Egizio” di Firenze e sua allieva, ricorda gli scavi in Egitto e le tre mostre che la prof. Bresciani ha organizzato con la collaborazione dell’allora Soprintendenza Archeologica della Toscana con il materiale conservato proprio a Firenze.
“Il Nilo sui Lungarni. Ippolito Rosellini egittologo dell’ottocento”, a Pisa, 29 maggio – 30 giugno 1982
“Le vie del vetro. Egitto e Sudan”, a Pisa, 28 maggio – 12 giugno 1988
“L’argilla e il tornio. La produzione fittile dell’Egitto antico in Toscana”, a Pisa, 21 dicembre 1991 – 23 febbraio 1992, e poi a Firenze presso il Museo Archeologico, 20 giugno – 30 settembre 1992.
Un’immagine degli scavi di Medinet Madi, l’ultimo scavo della dott.ssa Bresciani, dall’archivio personale della dott.ssa Guidotti
Al MAF è conservato ed esposto nelle ultime sale del “Museo Egizio” il sarcofago in pietra di Bakenrenef, acquistato da Rosellini nel 1828, la cui tomba è stata studiata a Saqqara proprio dalla prof. Bresciani. Un ricordo in più che va ad arricchire l’intreccio di storie sussurrate dai reperti a chi li guarda…
Avete preparato tutto il necessario per la scuola? Grembiuli, quaderni, merenda e soprattutto penne, matite e colori!
Nell’antico Egitto sicuramente non tutti i bambini erano destinati ad andare a scuola. I più fortunati che ricevevano un’istruzione però, vivevano una quotidianità a volte molte diversa da quella di oggi. In alcuni casi studiavano da soli o in piccoli gruppi con una sorta di precettore, non necessariamente si andava in un luogo deputato all’insegnamento, l’equivalente della nostra scuola, ma si rimaneva in casa, le materie di studio erano diverse e diversi erano i metodi di insegnamento e di mantenimento della disciplina.
Una cosa però era necessaria, allora come ora: l’astuccio!
Rilievo degli scribi, dalla tomba di Horemheb, Saqqara, Nuovo Regno (XVIII dinastia, regni di Tutankhamon e di Ay 1333-1319 a.C.).
Vi siete mai chiesti come fosse composta la cartella dei bambini egizi? Come facevano i loro compiti, su cosa scrivevano e con quale strumento?
I bambini diventavano scolari presto, intorno ai 5 anni, e terminavano gli studi di base circa 10 anni dopo, con il conseguimento del titolo di scriba. Dovevano imparare a leggere e scrivere in tre modi diversi: in geroglifico, in ieratico e in demotico, tre sistemi di scrittura completamente diversi che servivano per trascrivere la stessa lingua. Un po’ come i loro compagni moderni che si trovano ad imparare lo stampato maiuscolo, il minuscolo e il corsivo, ma con un’infinità di segni in più! Ovviamente c’era bisogno di molto esercizio e per i primi tentativi degli studenti non potevano certo essere sprecati dei fogli di papiro, che erano costosissimi e quindi riservati a testi molto importanti.
Ostraka (scaglie di pietra e vasi rotti) con iscrizioni in demotico, Nuovo Regno, XIX-XX dinastia.
I bambini dunque scrivevano sugli equivalenti delle nostre “brutte copie”, cioè schegge di pietra oppure pezzi di vasi rotti, con l’ausilio dello stilo, una sorta di bastoncino appuntito o sfrangiato, come un piccolo pennino o pennellino quindi, da scegliere in base allo stile calligrafico del testo da scrivere. Anche l’inchiostro doveva essere preparato sul momento, sciogliendo nell’acqua i pigmenti, altrimenti si sarebbe seccato diventando inutilizzabile. Nella cartella dei bambini era presente anche una tavoletta con due incavi per l’inchiostro e una scanalatura centrale che serviva per appoggiare lo stilo e le boccette per la preparazione dell’inchiostro. Quanta fatica rispetto alle nostre penne! Una cosa però è rimasta la stessa: i colori usati erano il nero, per i testi, e il rosso, per i titoli o per le cose più importanti che meritavano di essere evidenziate col colore.
Set scrittorio e vasetti per la preparazione dell’inchiostro, Nuovo Regno, Epoca Tarda.
Un particolare inaspettato è che tra le competenze che uno scriba doveva acquisire nella sua istruzione di base c’era anche lo scrivere incidendo la pietra. Nel suo kit per la scuola, quindi, non potevano mancare scalpello e mazzetta per scolpire i geroglifici.
La stele funeraria del maggiordomo Khentekhtayaun, esempio di scrittura geroglifica.
Alla fine del primo corso di studi si poteva proseguire con l’apprendimento di altre materie, come le lingue straniere, la medicina, l’astronomia o l’architettura. Per questi studi specialistici era necessario studiare presso le Case della Vita, vere e proprie scuole allestite di solito presso i templi.
Probabile raffigurazione di scolaro che porta una cartella e un cestino. Museo Egizio del Cairo [L’Egitto dei Faraoni”, Vol. 6: I Tesori del Museo Egizio del Cairo (testi A. Amenta, foto A. De Luca); Ed. White Star/L’Espresso Editoriale, 2005, pp. 86, 88].
Numerosi papiri ci parlano della vita degli scolari, uno dei più famosi è il papiro Lansing conservato al British Museum. Tra le sue righe troviamo rimbrotti e precetti di uno scriba al suo allievo. Con gli insegnamenti di questo antichissimo maestro vi auguriamo un buon rientro a scuola!
Frammento del papiro Lansing, XX dinastia, conservato al British Museum
Di giorno scrivi con le tue dita, di notte leggi ad alta voce.
Diventa amico del rotolo e della tavolozza, rendono più felici del vino.
Felice è il cuore di chi scrive: è giovane ogni giorno.
Oggi andiamo in cucina, per la precisione in quella degli Egizi! Nella nostra collezione moltissimi sono i reperti che ci raccontano cosa e come si mangiava sulle sponde del Nilo, sia con fonti iconografiche sia con veri resti di cibo. Ciononostante è bene non farsi ingannare: i pasti rappresentati o rimasti non sono quelli che si consumavano tutti i giorni alle tavole degli Egizi, ma veri e propri banchetti celebrati in onore del defunto. Un po’ come se pretendessimo di capire la nostra alimentazione analizzando solo il pranzo di Natale o della domenica insomma!
Anche i papiri ci aiutano a rimettere le cose nella giusta prospettiva, riportando diversi moniti alla moderazione e frugalità in campo alimentare che fanno da contraltare alle solenni abbuffate sulle stele funerarie:
E’ gran lode dell’uomo saggio contenersi nel mangiare,
E’ meglio stentare dalla fame che morire d’indigestione,
Non ti abbuffare di cibo: chi lo fa avrà la vita abbreviata.
Le stele funerarie avevano una funzione di notevole importanza: poiché con la morte cominciava per il defunto una nuova vita, doveva essergli assicurato il necessario sostentamento. Per questo motivo nelle tombe venivano deposti nella tomba anche alimenti e bevande, che però prima o poi sarebbero finiti. Serviva quindi una fonte inesauribile di cibo! Qui entrano in campo le statuette di servitori addetti a cucina e rifornimenti, e le stele con immagini di banchetto. Una volta letta la formula magica la tavola si sarebbe duplicata nel mondo del defunto all’infinito per tutta l’eternità. Sarebbe un sogno anche per i vivi in verità!
Stele funeraria di Samontuoser, Medio Regno (2065-1781 a.C.)
E cosa sarebbe comparso sulla tavola?
Innanzitutto il pane e la birra, i due alimenti base della dieta egizia. Nel periodo appena trascorso moltissimi si sono sbizzarriti a creare pani e focacce di tutti i tipi, ma scommettiamo che nessuno è riuscito a eguagliare l’infinità varietà egizia. Non solo venivano usati diversi tipi di cereali (il principale era il farro), ma anche moltissimi modi di cottura: in forno, in forme di terracotta riscaldate poi passate in forno o addirittura su pietre arroventate. Le forme poi erano davvero moltissime, circolari, conici, a fette, a forma di animali… e ne ritroviamo numerosi esempi sia reali che nelle rappresentazioni.
Statuetta di serva che prepara il pane, Antico Regno (V dinastia, 2465-2323 a.C.)
La birra veniva prodotta facendo fermentare un pane apposito, fatto di farina d’orzo e non portato a cottura completa, all’interno di un vaso contenente succo di datteri. Dopodichè veniva pressato e il liquido che si otteneva, probabilmente meno alcolico della moderna birra, veniva poi filtrato e aromatizzato con spezie e aromi.
A differenza di quanto accade oggi il pesce era meno costoso della carne e veniva consumato anche dai ceti meno abbienti, arrostito, lessato, ma anche seccato e salato oppure messo in salamoia. La carne costituiva, invece, un’eccezione ed era consumata più raramente, soprattutto lessata o come base per pasticci e polpette. I volatili invece erano quasi sempre arrostiti allo spiedo.
La frutta consumata era quella tipica dell’area mediterranea: fichi, uva, sicomori, datteri, carrube, meloni e cocomeri; a partire dal Nuovo Regno (1552-1070 a.C.) divenne assai apprezzata la melagrana, mentre fra la frutta selvatica era molto nota la giuggiola.
Le verdure comprendevano in gran parte leguminose come ceci, fave, lenticchie e piselli, inoltre erano assai usati aglio, cipolla e porri sia come condimento che come cibo a sé; cetrioli e cavoli fanno spesso la loro comparsa sulle tavole imbandite, insieme alla lattuga cui era attribuito un grande potere afrodisiaco.
Bassorilievo dalla tomba di Ptahmose, dignitario e sacerdote di Ptah, Menfi, Nuovo Regno (XIX dinastia, regno di Ramesse II, 1279-1212 a.C.)
Per adesso fermiamoci qui, ma si tratta solo di un primo assaggio della cucina egizia. Continuate a seguirci per scoprire altre abitudine culinarie in uso lungo le sponde del Nilo. Buon appetito!
In questo giorno nel 1843 morì a Pisa il padre dell’egittologia italiana, Ippolito Rosellini. Per noi al MAF è una figura speciale, perché è grazie a lui che oggi il nostro museo conserva ed espone una delle collezioni egizie più importanti al mondo. Fu proprio Rosellini a convincere il granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena a finanziare la spedizione franco-toscana in Egitto e questo servì da sprone al re Carlo X di Francia per accordare lo stesso finanziamento a J-F. Champollion. Ma se già vi abbiamo parlato della famosa spedizione, oggi vorremo scoprire qualcosa di più dell’aspetto privato di Rosellini che tanto lo influenzò anche nei suoi studi.
Niccola Francesco Ippolito Baldassare Rosellini, questo infatti il suo nome completo, nasce il 13 agosto 1800 in una famiglia di commercianti originari di Pescia. Il padre destina subito il figlio primogenito a continuare la sua attività, ma vista l’attitudine allo studio del bambino, muta parere e ne affida l’educazione dapprima alla confraternita dei padri serviti a Pisa, e, al compiere dei 13 anni, a Firenze presso la SS. Annunziata. All’arrivo a Firenze viene affidato alle cure educative di Padre Costantino Battini, con cui instaura un rapporto filiale, arrivando a considerarlo un secondo padre.
Busto di Ippolito Rosellini al MAF.
È per amor suo, più che per amore della materia, che indirizza i suoi studi verso l’antico. Tra i 16 e i 17 anni ritorna a Pisa dove frequenta l’Università sempre sotto la guida del Battini, al quale si aggiunge il cavalier Bagnoli, che lo tengono al riparo dalla tentazione di partecipare alla tumultuosa scena politica italiana del periodo. Il 5 giugno 1821 ottiene la laurea in Teologia e gli viene assegnata, grazie alla raccomandazione del professor Bagnoli, una pensione, una moderna borsa di studio potremmo dire, per lo studio delle lingue orientali in modo da prepararsi alla nomina, quando fosse stato pronto, a professore presso l’Università di Pisa. Dopo aver completato i suoi studi a Bologna, sotto la guida del cardinal Mezzofanti, nel 1824 viene nominato professore di Lingue orientali. Mai momento fu più propizio: nello stesso anno Jean François Champollion aveva pubblicato il suo Resoconto del sistema geroglifico degli antichi Egizi, aprendo l’era dell’egittologia moderna. Rosellini, fresco di nomina e contrastato da qualche opposizione accademica, non può esimersi dall’entrare nel fervido dibattito che il volume scatena in tutta Europa: scrive una breve esposizione della teoria del francese sposandola appieno e da quel momento non pensa più che all’Egitto.
La sintesi di Rosellini che illustrava in italiano il sistema geroglifico di Champollion
Non appena Champollion, che aveva intrapreso un viaggio in Italia per studiare alcune collezioni egizie conservate nel nostro paese, giunge a Livorno, corre a presentarsi ed è allora che scocca la seconda scintilla. Champollion, di dieci anni più vecchio, apprezza l’intervento di Rosellini in suo favore e riconosce al pisano un animo leale e una viva intelligenza, una voglia di apprendere mai sazia che, unita ad una naturale modestia, fanno di lui l’allievo ideale.
jeune homme fort instruit et plein d’ardeur… excellent coeur et tête bien meublée, così Champollion descrive Rosellini al fratello, ammirando in quell’allievo che, ricordiamolo, era già professore, la capacità di rimettersi in gioco e tornare studente per amore della scienza.
Ritratto di Champollion eseguito in Egitto nel 1829 da G. Angelelli (Copertina interna Tributo di riconoscenza e d’amore)
E “allievo-professore” rimane anche nei confronti di Champollion …Fin da quando fummo insieme… facemmo tra noi uno scambio: io gli davo esercizi d’ebraico e ricevevo da lui con doppia usura l’insegnamento del copto…E’ tutto in queste parole del pisano il rapporto tra i due: complementare, ma sempre con quel riguardo alla maggiore esperienza da parte del più giovane Rosellini, che davvero non mancherà mai di esprimere a colui che sempre chiamerà Maestro, amore e riconoscenza.
Rosellini e Champollion aveano ambedue sortito dalla natura una inclinazione speciale allo studio delle cose egiziane, aveano pure ambedue un’anima franca, leale, generosa, quindi per quella segreta legge di natura, che lega le anime temprate all’unisono, e che si occupano dei medesimi studi, non eransi anche veduti e già erano amici.
(Biografia del professore Ippolito Rosellini scritta dal suo discepolo e amico D. Giuseppe Bardelli, Firenze 1843)
Spedizione letteraria franco-toscana, dipinto di Giuseppe Angelelli nel 1830, oggi al MAF.
Da quel momento non si lasciano più. Per i successivi quattro anni Rosellini segue Champollion in tutti i suoi viaggi di studio e in seguito si trasferisce a Parigi. Il loro rapporto muta e diviene paritario a livello scientifico e di fraterna amicizia tra i due uomini. Pur nelle mille insidie e difficoltà, dovute all’organizzazione di una spedizione al servizio di due diversi paesi, la loro mutua fiducia non viene mai meno. Progettano e compiono insieme la spedizione che li rende famosi per poi separarsi temporaneamente agli inizi del 1830, di ritorno dal viaggio in Egitto. Stabiliscono di comune accordo di pubblicare insieme i risultati della spedizione, ma una volta pubblicato il piano dell’opera, che comprendeva 10 volumi, Champollion muore, lasciando sulle spalle di Rosellini tutta la responsabilità di rendere pubbliche le loro scoperte. Il peso della pubblicazione è accompagnato dal profondo dolore per la perdita dell’amico.
Pur sappia il mondo che il dolor mio è pari all’amore e alla riconoscenza che di Te serbo nel petto; e sappia ancora che se i modi mi mancano per esprimerlo, colpa è dell’ingegno che a tanto non vale; ma non già del cuore, che tutta ne comprende la cagione e la forza.
(Tributo di riconoscenza e d’amore reso alla onorata memoria di G.F. Champollion il Minore da Ippolito Rosellini, Pisa 1834)
Due tavole, con reperti oggi conservati al MAF, dai Monumenti dell’Egitto e della Nubia di Rosellini.
Nonostante i continui attacchi da parte di Figeac Champollion, fratello maggiore del Decifratore, e di una parte degli studiosi italiani, Rosellini porta avanti l’immane lavoro e, volume dopo volume, prendono corpo IMonumenti dell’Egitto e della Nubia. La prematura morte di Rosellini interrompe l’opera all’ottavo volume: il nono, già pronto, verrà pubblicato postumo, mentre l’ultimo non vedrà mai la luce.
Oggi si celebra la Giornata della Natura Selvatica che quest’anno è dedicata alla biodiversità. Nelle nostre collezioni sicuramente la sezione che meglio rispetta questo valore è quella egizia. Come mai abbiamo così tante rappresentazioni dei più svariati animali proprio nell’antico Egitto?
Sicuramente per l’importante significato religioso attribuito loro. Tutte le divinità egizie, infatti, potevano presentarsi sotto due aspetti: uno umano e l’altro animale (Per approfondire vedi qui). Anche quando sono rappresentati in forma umana, spesso mantengono alcune caratteristiche o l’intera testa del loro corrispettivo animale. Un po’ come la clava serve a identificare Eracle nel mondo greco, così la testa di sciacallo identifica Anubi e quella di ibis invece Thot.
Proprio per questo molti animali erano considerati sacri e venerati. Oggi conosciamo moltissime mummie animali ed esistevano anche appositi cimiteri per animali, come tori, gatti e coccodrilli, posti sotto la protezione rispettivamente di Apis, Bastet e Sobek.
Ippopotamo in fayence, Medio Regno (2065-1718 a.C.)
Probabilmente i primi animali che ci vengono in mente pensando all’arte egizia sono gli ippopotami e i gatti, ma gli Egizi erano attenti osservatori della natura. Moltissimi dei geroglifici rappresentano in modo molto accurato mammiferi, ma anche rettili, insetti o uccelli di ogni genere, ciascuno chiaramente distinguibile.
Basti pensare che per simboleggiare il dio Ra era stato scelto lo scarabeo stercorario, probabilmente perché i movimenti che faceva per trasportare lo sterco che usava come nutrimento, conformato come una pallina, ricordavano agli Egizi i movimenti del dio che invece muoveva il sole.
Scarabei del cuore, Nuovo Regno (1550-1069 a.C.)
Ma gli animali erano molto presenti anche nella vita profana sia come fonte di nutrimento che come animali da compagnia.
In questo bassorilievo di età amarniana (le linee diagonali che vedete in foto sono la rappresentazione tipica dell’epoca dei raggi del sole) vediamo un allevamento di volatili. Nel dettaglio in basso si intravede una sorta di vasca a gradini, mentre in alto si affacciano sul cortile pieno di animali una serie di stanzette adibite a magazzini. Nella prima però si vede abbastanza chiaramente un uomo che sta nutrendo a forza un volatile tenendolo ben stretto.
Dettagli di bassorilievo con allevamento di volatili, Nuovo Regno, XVIII dinastia, Regno di Akhenaton 1350-1333 a.C.)
Più tranquille invece, le scene domestiche. Accanto al gatto che attende pazientemente composto al di sotto della sedia della sua padrona, troviamo anche un animale da compagnia più insolito… nientemeno che un babbuino!
Dettaglio di bassorilievo del Nuovo Regno (1550-1069 a.C.) a sinistra; a destra stele della XVIII dinastia (1550-1291 a.C.)
C’è da notare che probabilmente era un compagno per tipi più avventurosi: per starsene tranquillo al suo posto, infatti, ha bisogno di essere trattenuto da un cinturino in vita e di un prelibato spuntino. Che differenza con il regale atteggiamento del gatto!
Se gli antichi egizi avessero celebrato la #giornatadellaterra, certamente oggi avrebbero onorato il dio Geb!
Geb, la terra, è figlio di Tefnut, l’umidità, e Shu, l’aria secca; sposò sua sorella Nut, il cielo, dalla quale ebbe quattro figli – Osiride, Iside, Seth e Nefti.
Sarcofago di una anonima cantatrice di Amon, XXI dinastia (1069-945 a.C.), esposto al MAF
La tradizione cosmogonica è piuttosto complicata: esistono più versioni dei miti, strettamente legate alle città in cui vennero elaborate. Nella cosmogonia di Eliopoli (corrispondente alla città odierna del Cairo) il demiurgo (il sole) generò una prima coppia di divinità, l’aria secca Shu e l’aria umida Tefnut, da cui nacquero Geb e Nut, separate da Shu che si interpose tra loro. Diversi sono i miti di Ermopoli o di Menfi. Nell’iconografia legata alla cosmologia eliopolitana Geb è solitamente raffigurato disteso a terra, sormontato da Shu che sostiene Nut inarcata su di lui. Nell’antico Egitto il modo di rappresentare gli elementi del cosmo era prettamente figurativo: il cielo era una vacca o una donna piegata ad arco, che toccava la terra con le mani e i piedi; il sole lo attraversava, partorito ogni giorno dalla vacca o dalla donna celeste.
Geb talvolta viene raffigurato con un’oca sulla testa, che corrisponde al geroglifico del suo nome (Geb infatti è chiamato il “Grande starnazzatore”!); l’oca è un simbolo di prosperità, tanto che la successione di un nuovo faraone veniva annunciata dalla liberazione di quattro oche, come augurio di un regno lungo e prospero. Il geroglifico riprodotto nell’immagine si legge infatti Geb, ma anche Aped, oca.
Le “Oche di Meidum”, un dipinto parietale dalla mastaba di Nefermaat e Itet, Antico Regno (conservate al Museo del Cairo). Le oche grigie e rosse, due su sei, sono proprio l’oca raffigurata nel geroglifico “geb” o “aped”, mentre le altre quattro sono quelle utilizzate in un altro geroglifico. Questo dipinto, per il suo eccellente stato di conservazione, è stato anche definito “Egypt’s Mona Lisa”.
Con il passare del tempo, il nome del dio venne associato sempre più spesso alla Valle, terra abitabile dell’Egitto, e quindi alla vegetazione, alla fertilità, al dominio sugli animali. Proprio per la stretta connessione con l’elemento vegetale, Geb viene raffigurato talvolta coperto di piante e frutti o con la pelle verde o nera, il colore della terra fertile del Nilo (in geroglifico Kemet, che è anche il nome con cui gli Egizi chiamavano il loro territorio). Geb governò il mondo antico, ricco e fecondo, fin quando si stancò di regnare; allora il suo posto venne preso dai suoi figli litigiosi Osiride e Seth. Geb venne associato anche al mondo degli inferi, la Duat, in quanto si credeva che intrappolasse le anime per impedire loro di ascendere al cielo, nei campi Iaru.
Per festeggiare la più importate festa cristiana e augurarvi una Serena Pasqua vi raccontiamo oggi uno dei papiri della nostra ricca collezione, formatasi in larga misura grazie alla generosa donazione voluta dal senatore Girolamo Vitelli, insigne grecista e primo direttore dell’Istituto Papirologico fiorentino che ancora oggi porta il suo nome.
Il papiro, il cui nome per gli addetti ai lavori è PSI VIII 920, è più noto come il papiro della tempesta sedata. Si tratta di un contratto di affitto di un terreno scritto in greco e databile al VI sec. d.C.. Probabilmente faceva parte dell’archivio della famiglia degli Apioni, una delle più importanti dell’Egitto tardoantico, che aveva le sue proprietà soprattutto nell’area di Ossirinco. Questo ci fornisce anche un interessante indizio sulla provenienza del papiro, sconosciuta, dal momento che il papiro era stato acquistato sul mercato antiquario egiziano da un membro della “Società Italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto”, Guido Gentili.
la tempesta?
La parte più rilevante, come spesso accade, è dietro! Il retro del papiro (il verso per gli studiosi, che invece indicano il fronte con la parola recto), infatti, ospita l’unica raffigurazione conosciuta su papiro di uno dei miracoli di Gesù presso il mar di Galilea, quello della tempesta sedata.
L’episodio, raccontato nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca (Mt 8, 23-27; Mc 4, 35-41; Lc 8, 22-25), fa parte dei miracoli compiuti da Gesù nei pressi del lago di Tiberiade, spesso oscurato dalla più nota pesca miracolosa o dal salvataggio di Pietro dalle acque.
Gesù salì sulla barca e i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco si sollevò in mare una così gran burrasca, che la barca era coperta dalle onde; ma Gesù dormiva. E i suoi discepoli, avvicinatisi, lo svegliarono dicendo: «Signore, salvaci, siamo perduti!» Ed egli disse loro: «Perché avete paura, o gente di poca fede?» Allora, alzatosi, sgridò i venti e il mare, e si fece gran bonaccia. E quegli uomini si meravigliarono e dicevano: «Che uomo è mai questo che anche i venti e il mare gli ubbidiscono?»
(Vangelo di Matteo 8, 23-27, edizione Nuova Riveduta CEI)
Gesù è a poppa e si sorregge la testa con la mano, gesto che segnala il suo essere addormentato. Dall’altro lato della barca sono raggruppati nove discepoli, tre in primo piano con altri sei alle spalle. Quello più vicino a Gesù solleva una mano, fa il gesto della parola, la rappresentazione grafica della preghiera che i nove rivolgono al Salvatore, alcuni degli altri allargano le braccia per lo spavento, tutti rivolgono lo sguardo alla figura addormentata. All’estrema sinistra due figure più piccole di incerta identificazione, nella quali sarebbe possibile riconoscere, in una suggestiva interpretazione, il vento e il mare fatti persona, sgridati da Gesù.
Il papiro fa parte di una serie di “fogli di bottega”, un bozzetto, preliminare, uno schizzo insomma che doveva servire per preparare una raffigurazione più grande, serie di cui fa parte anche un altro papiro del MAF, quello di Amore e Psiche.
Chiesa di San Giorgio, Oberzell, Reichenau, Affresco della navata centrale e disegno ricostruttivo (Fonte: Academia.edu)
Come tale costituisce un’importante testimonianza dello stretto legame delle arti minori , come la miniatura, con l’arte monumentale degli edifici di culto. Il tema della tempesta sedata, infatti, è al centro di numerosi cicli decorativi presenti in tutta Europa fino all’Alto medioevo; il nostro papiro, dunque, dà un importante contributo per ricostruire le perdute decorazioni delle basiliche paleocristiane.
Con la storia di questo miracolo il MAF Vi augura una Serena Pasqua!
“Erant in quadam civitate rex et regina” (C’erano una volta in una città un re e una regina)
Apuleio, Metamorfosi, IV, XXVIII
Così cominciano le favole, anche quelle vecchie di quasi duemila anni. E proprio queste parole avrà forse declamato chi avrà stretto e srotolato tra le proprie mani il papiro di cui un frammento è giunto fino al Museo Egizio di Firenze, mentre vi tracciava un’illustrazione della favola di Amore e Psiche, raccontata magistralmente da Apuleio ne “Le metamorfosi”.
Racconta la storia che Psiche, principessa dalla incredibile bellezza divina, fu destinata dall’invidia di Venere a un matrimonio infelice, a cui la sottrasse Cupido, invaghitosi di lei. La fanciulla, trasportata in un palazzo splendente dal vento Zefiro, era destinata a non conoscere mai il proprio amante, che la visitava solo di notte sparendo prima dell’alba. Venute a conoscenza del suo segreto, e invidiose della sua ricchezza e felicità, le sorelle le avrebbero però instillato il dubbio di essere la sposa di un mostro destinato ad ucciderla, convincendola a rompere la promessa fatta al misterioso amante e a spiarlo nel sonno alla luce di una lampada. Mentre la lucerna rivela a Psiche la vera identità di Cupido che giace addormentato nel letto, uno schizzo di olio lo sveglia e il dio dell’amore scompare lasciandola da sola, nella più cupa disperazione. La giovane dovrà affrontare quattro terribili prove inflittele da Venere per cercare di redimersi, e proprio al termine dell’ultima, cadendo vittima ancora una volta della propria curiosità, vanifica gli sforzi fatti e cade addormentata in un sonno simile alla morte. Ancora una volta è Cupido che, mosso dall’amore di cui lui stesso è vittima, la salva e ottiene da un benevolo “nonno Giove” il permesso di sposare la fanciulla, resa immortale da una coppa di ambrosia, in uno sfarzoso ricevimento celeste.
La celebre versione di Amore e Psiche di Canova, conservata al Louvre (fonte)
Il papiro del MAF (PSI VIII 919), datato al II sec. d.C., appartiene ad una ristretta serie di documenti simili, provenienti da Ossirinco, che vengono riconosciuti come “fogli di bottega”, ovvero schizzi preparatori per illustrazioni forse più grandi. Il formato di questi disegni tracciati semplicemente ad inchiostro, infatti, non è compatibile con le dimensioni delle illustrazioni che accompagnavano i testi, rapportabili in genere all’ampiezza delle colonne di scritto.
Nell’immagine, come nel racconto di Apuleio, i due sono poco più che bambini; Psiche, che stringe in mano un oggetto (forse proprio la lampada?) ha ali di farfalla (simbolo per antonomasia dell’anima e della metamorfosi, e designata dalla stessa parola greca psyché) e Amore ali piumate. La metafora dell’anima come essere volante (uccello, farfalla o falena) viene da lontano, così come alato è anche l’amore, che stringe quasi sempre una torcia, simbolo della contemplazione della bellezza e del fuoco della vita. Così i due sono rappresentati anche su due cammei in sardonica appartenuti alle collezioni medicee ed esposti al MAF: nel primo addirittura Amore, con la sua fiaccola, tormenta Psiche, mentre la trascina per i capelli… Le vere pene d’amore!
Cammei conservati al MAF. Amore tormenta Psiche con una fiaccola, tirandole i capelli (fonte) (epoca augustea o XVI sec.) e Amore e Psiche abbracciati
La favola di Apuleio è da leggere come un’allegoria di ciò che l’anima umana, deve superare e imparare per ottenere la propria redenzione: Psiche perde a causa della sua naturale curiosità l’originaria condizione di beatitudine, e soltanto attraverso una lunga serie di travagli, una maturazione interiore e l’intervento della divinità (Amore) potrà ottenere il riscatto finale.
Amore e Psiche, II sec. d.C., Firenze, Galleria degli Uffizi (fonte)
Un racconto complesso, nutrito di simboli e teorie filosofiche, che però ancora oggi incanta come solo una favola sa fare. E con questa interpretazione più leggera e spensierata il MAF vi augura buon San Valentino!
Qualche volta i reperti del nostro museo i regalano emozioni inattese:
spesso ci capita di vedere i visitatori camminare per le sale del museo in maniera quasi distratta e restare poi letteralmente folgorati girando un angolo o attraversando una porta e trovandosi di fronte a opere particolarmente stupefacenti.
La Chimera certo, il Vaso François (sempre più grande di quanto ci si immagini vedendolo in foto), ma anche l’Idolino di Pesaro o la Testa di cavallo Medici-Riccardi che dalle loro postazioni ci offrono splendidi scorci del Palazzo della Crocetta.
I grandi bronzi, tra le opere più apprezzate del MAF
Anche reperti meno noti, ma molto particolari spesso sono oggetto di stupore, come la fibula Corsini o il ramaiolo con le manine.
Talvolta accade anche che qualcuno, per il suo personale vissuto, si commuova fino a piangere di fronte a un oggetto particolarmente amato, talaltra che torni espressamente a trovarlo come fosse un vecchio amico.
È proprio quanto è successo qualche giorno fa, quando questa signora è tornata a vedere l’oggetto della sua tesi discussa luglio del 1950. All’epoca le fu concesso addirittura uno spazio apposito al di fuori delle sale del museo, per studiare nei minimi dettagli il reperto!
In tempi più recenti, invece, il vaso François, ancora nella sua vecchia collocazione, ha folgorato uno studente di liceo, che poi, iscrittosi all’università, ha voluto studiarlo di nuovo nella sua tesi di laurea!
Due storie tra tante, e sicuramente più comuni di quanto possiamo sospettare, dovute al fascino che ancora oggi i capolavori senza tempo esercitano su tutti noi; due storie che ci sono sembrate il modo migliore per ringraziare tutti gli oltre 76.000 visitatori che nel 2019 hanno attraversato le sale del MAF, con occhi curiosi, voraci, nostalgici o assonnati. Vi aspettiamo ancora e ancora, cari visitatori. E vi facciamo i nostri migliori auguri per il nuovo anno!
Più o meno l’idea di chi, tremilacinquecento anni fa, depose questo carro di legno -smontato- nella tomba del fratello di latte del faraone Amenofi II (1425-1397 a.C.) doveva essere quella: il carro avrebbe continuato a viaggiare per l’eternità, nel regno di Osiride, rincorrendo gli animali da cacciare con la guida esperta del suo proprietario Kenamun. E il carro in effetti ha viaggiato a lungo, attraverso secoli e millenni, ha solcato il Mediterraneo sulle navi che trasportavano il bottino della spedizione ottocentesca di Champollion e Rosellini e ancora oggi lo possiamo ammirare, perfettamente conservato nonostante la fragilità dei materiali che lo compongono, nelle sale del Museo Egizio di Firenze.
Il clima caldo e secco dell’Egitto ha infatti consentito la conservazione di materiali organici quali legno, avorio, e persino la corteccia di betulla che era stata utilizzata per i rivestimenti di tutti i giunti; solo le cinghie in cuoio che vediamo oggi sul pianale e sul timone sono un restauro ottocentesco, basato comunque sui frammenti di cuoio rinvenuti insieme al carro.
Disegno ricostruttivo del carro e confronto con una pittura, dalla prima pubblicazione dei materiali fatta da Rosellini
Il carro, realmente utilizzato dal proprietario, come dimostra l’usura di alcune sue parti, è di produzione egiziana e non straniera, come si ritenne al momento del rinvenimento, ed è confrontabile con i carri di Tutankhamon conservati al museo del Cairo. La sua struttura dimostra una progettazione estremamente avanzata, che consentisse la massima velocità, resistenza e contemporaneamente il massimo comfort di guida. Il pianale poggiava su una rete di corregge di cuoio intrecciate in modo da ammortizzare la corsa sullo sterrato; le ruote, con soltanto quattro raggi, sono leggerissime e senza cerchioni (se li avevano, probabilmente erano anch’essi di cuoio), i legni che compongono le varie parti sono diversi a seconda delle loro specifiche qualità e alcuni addirittura fatti venire appositamente da fuori l’Egitto.
Dettagli del pianale, della ruota e del giogo
Su questo mezzo potevano salire fino a due persone, in piedi (l’auriga e il proprietario che impugnava l’arco, oggi appoggiato sul pianale), e doveva essere trainato da una coppia di cavalli di piccola taglia, alti al massimo 120 cm al garrese: gli antenati dei nostri pony, insomma.
Un confronto con un mezzodel tutto analogo, sebbene molto più tardo, si trova nel c.d. “rilievo dei mestieri”, conservato poco distante dal carro sempre nel Museo Egizio di Firenze; nel rilievo sono raffigurati diversi artigiani al lavoro, e nell’angolo in basso a destra si vede proprio un artigiano intento nella rifinitura di un carro a due ruote!
Il rilievo dei mestieri, XXVI dinastia, 664-525 a.C.
Kenamun, il cui sarcofago è stato recentemente identificato nei depositi del Museo di Firenze, ha una storia particolare; la sua mummia, danneggiata dall’acqua nel trasporto dall’Egitto a Livorno, fu infatti lasciata a Pisa, dove fu sbendata e dove è stato ritrovato lo scheletro ripulito, conservato nel museo di Calci. Kenamun, allattato dalla stessa balia che aveva nutrito Amenofi II, ricopriva la carica di Gran Maggiordomo del Re ed era un personaggio molto influente a corte, anche se poi cadde probabilmente in disgrazia, come dimostra l’avvenuta distruzione nella sua tomba del suo nome e della sua figura. Le iscrizioni sulla tomba tuttora ricordano “il cocchio che Sua Maestà gli diede come segno del suo favore” e che egli volle con sé nella vita eterna, proprio quello che possiamo ammirare ancora oggi nel nostro museo.
La testa (fonte) e il sarcofago di Kenamun (fonte)
E se volete sentire il racconto dalla voce dello stesso Kenamun… questo è il link al video realizzato dall’Università di Pisa in occasione della mostra a lui dedicata nel 2014, “L’undicesima mummia”. https://www.youtube.com/watch?v=Iu5JpFndpBY