Sulla copertina del catalogo dedicato alla mostra “Tesori dalle terre d’Etruria“, che espone i pezzi appartenenti alla collezione dei conti Passerini, spiccano due agili figure che sembrano voler balzare fuori dalla pagina stampata. Ma chi sono questi due giovani, lei riccamente abbigliata e lui senza abiti, tutto preso dai suoi passi di danza?
L’immagine si trova al centro di un piattino di ceramica attica, forse un piatto da portata o forse decorativo, da appendere alla parete (grazie ai due fori nella parte posteriore: proprio come si usa fare ancora oggi). Il soggetto è strettamente connesso con l’ambiente del banchetto e del simposio: una giovane flautista provvede alla musica, mentre un danzatore dai tratti somatici africani accompagna le note con movimenti aggraziati. Uno spettacolo a cui erano ben avvezzi gli uomini (le donne banchettanti non erano ammesse in Grecia, a differenza di quanto accadeva in Etruria) che partecipavano a questi raduni.
L’abbigliamento della giovane, con la tunica decorata, il mantello, i gioielli indossati al collo e alle orecchie e il copricapo di foggia orientale, la qualifica come una megalomisthos, una professionista d’alto bordo che, in coppia con il suo esotico compagno, aveva il compito di allietare i banchetti degli uomini con le proprie arti; non una prostituta che offriva le sue prestazioni per poche dracme, tanto condannate dalla società greca.
Dei due giovani conosciamo anche i nomi, sovradipinti con piccoli caratteri rossi tutto intorno al tondo (quello di lei, Hippotia) e verticalmente tra le due figure (quello di lui, Amasis); entrambi sono nomi “parlanti”, allusivi al mestiere e alle origini dei due. Hippotia è letteralmente “colei che cavalca”, con una chiara allusione al concetto di cavalcare nella sfera sessuale; Amasis (faraone filelleno della XXVI dinastia, nel VI sec. a.C.) è invece il nome tipico di tutti gli africani.
Disegno del piatto in cui sono visibili i nomi scritti a minuscoli caratteri
La pittura del piatto, in base ai confronti stilistici, è attribuita al pittore Paseas, le cui opere erano evidentemente molto apprezzate nel territorio di Chiusi (conosciamo ben sette piatti riconducibili a questo ceramografo provenienti dalla zona). Una delle sue caratteristiche è la realizzazione di alcune parti della pittura a “rilievo”: la linea di contorno delle figure, per esempio, dipinta con una vernice più densa, e i riccioli del ballerino, realizzati con dei minuscoli globetti di argilla poi dipinti con la vernice nera. Una tecnica la cui invenzione è da attribuire al grande pittore Exekias, e che Paseas ereditò forse da Psiax tramite il pittore di Andokides, che di Exekias fu allievo diretto.
Quanto può essere attuale l’antichità? Oggi, in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, vi parliamo di alcune figure del mito non troppo conosciute, eppure affascinanti ed eccezionalmente moderne nella loro complessità. La singolarità delle storie di questi personaggi sta nel mutamento di sesso nel corso della loro vita.
Racconta il mito che Cenide, una fanciulla lapita, dopo aver subito, impotente, l’amore di Poseidone, chiese al dio come “indennizzo” di essere trasformata in un guerriero invulnerabile.
Cenide divenne così Ceneo, un guerriero fortissimo che guidò il popolo dei Lapiti in molte battaglie. Nella lotta che si scatenò tra Centauri e Lapiti durante il matrimonio di Piritoo, re di questi ultimi, i centauri si accanirono contro di lui; non potendo ferirlo, per ucciderlo lo seppellirono sotto una pila di massi o di tronchi d’albero, conficcandolo nel terreno per soffocarlo. È proprio questa la scena che vediamo rappresentata sul fregio che corre sul collo del vaso François, sul lato posteriore, dove si vede un guerriero che emerge per metà dal terreno circondato dalle ferine creature armate di tronchi e grosse pietre.
Secondo quanto raccontato da Ovidio un uccello dalle ali splendenti sarebbe poi volato via da sotto la catasta di alberi (Metamorfosi, XII); secondo Virgilio, la sua anima nell’aldilà avrebbe riassunto sembianze femminili (Eneide, VI, 447-449).
Nel mondo antico dunque la riassegnazione di sesso non è sconosciuta, come si potrebbe pensare; ma, a differenza del travestimento, che è ben noto in numerosi rituali, soprattutto in quelli di passaggio, può avvenire soltanto nei racconti mitologici, grazie all’intervento degli dei.
Accadde così per Tiresia, l’indovino tebano che, per volere divino, nella sua vita sperimentò sia le sembianze maschili che quelle femminili. Nel suo caso tuttavia la trasformazione non sarebbe stata una ricompensa, ma una punizione: avendo visto nel bosco due serpenti uniti nell’amplesso, ne uccise la femmina colpito dal disgusto, e fu trasformato in donna; quando assité una seconda volta alla scena, da donna, uccise il serpente maschio e fu tramutato nuovamente in uomo.
Una delle poche rappresentazioni note dell’indovino tebano Tiresia, su un cratere lucano del Pittore di Dolone conservato alla Bibliothèque Nationale de France (fonte).
Chiamato poi a dirimere una contesa tra Era e Zeus, su chi, tra maschi e femmine, traesse più piacere dall’atto sessuale, rispose indicando la donna, svelando così un segreto che la dea teneva ben nascosto. Per ripicca Era lo rese dunque cieco, e Zeus, per compensazione, lo rese veggente.
Un caso ben diverso, da non confondere con la riassegnazione del sesso, è invece quello di Ermafrodito, che insieme è sia maschio che femmina. Secondo il mito raccontato da Ovidio Ermafrodito era il figlio bellissimo di Ermes e Afrodite (da cui il suo nome), amato dalla ninfa Salmace, che chiese agli dei di non essere disgiunta più dal suo amato. Fu esaudita, e gli dei trasformarono i due in un’unica creatura che aveva sia caratteri maschili che femminili. Al MAF è esposto un bronzetto di epoca romana raffigurante il dio in piedi, in origine ritratto forse nell’atto di specchiarsi; oltre ad essere caratterizzato dalla compresenza di attributi maschili e femminili, presenta anche una differente caratterizzazione della struttura fisica, più massiccia nel lato posteriore e più molle e delicata in quello anteriore. In origine la scultura svolgeva probabilmente la funzione di sostegno di un candelabro.
A ben vedere, il mondo antico non è dunque quella realtà fredda e distante che viene spontaneo relegare tra le pagine di manuali muffiti: la sua vivida umanità esce ancora oggi con forza dai reperti archeologici e dalle parole delle fonti, azzerando in modo sorprendente la distanza di secoli e chilometri.
Due vicoli stretti e piuttosto bui alle spalle del centro più lussuoso e turistico di Firenze, vicinissimi a piazza della Repubblica: ecco cosa sono oggi via delle Terme e via di Capaccio. Eppure sono luoghi in cui ricercare la storia più antica della città, soprattutto nel giorno in cui si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua.
Le terme romane immaginate da L. Alma Tadema (fonte)
Il cittadino che nel I sec. d.C., infatti, avesse voluto recarsi alle terme per curare la propria igiene personale o per incontrare amici e parlare di affari, sarebbe arrivato proprio in questo punto di Florentia, dove l’acquedotto proveniente dai rilievi a nord ovest della città terminava la sua corsa (il caput acquae, appunto, di cui è rimasta traccia ancora nel termine Capaccio). In questa zona gli scavi condotti nell’immediato dopoguerra a seguito delle distruzioni nell’area del Ponte Vecchio misero in luce un settore delle terme edificate intorno ai primi decenni del II secolo d.C., con pavimenti a mosaico e in opus sectile ed elementi di decorazione architettonica e statuaria; l’area era già precedentemente urbanizzata, come dimostrano alcuni pavimenti in cementizio rinvenuti al di sotto delle strutture di II secolo.
Le terme capitoline disegnate nelle cartoline di Corinto Corinti, architetto che illustrò gli scavi della Firenze Romana (fonte)
Florentia era dotata di altri due grandi edifici termali pubblici: uno nella zona del foro, dove sorgeva anche il Capitolium (il tempio di Giove, Giunone e Minerva che contraddistingueva tutte le città romane), che in età adrianea arrivò a coprire un’area complessiva di 2400 mq, e uno sotto Piazza della Signoria, sempre di età adrianea, che costituiva il corpo centrale di un più articolato complesso che prevedeva anche una fullonica (impianto per la tintura delle stoffe) e una grande latrina.
Le terme presso la porta contra Aquilonem, ancora illustrate da Corinto Corinti (fonte)
Resti di un altri edifici termali, più piccoli e forse probabilmente privati, sono stati rinvenuti sotto la torre della Pagliazza, dietro via de’ Calzaioli, e presso la porta contra Aquilonem (nell’area del Battistero). Ma come era fatto un edificio termale?
Indipendentemente dalla pianta dell’edificio, che in età imperiale è per lo più assiale e simmetrica, le terme non potevano prescindere dai loro tre ambienti principali: il calidarium, il tepidarium e il frigidarium; spesso c’era anche una stanzetta riscaldata da un braciere e destinata ai bagni di sudore, il laconicum. Le stanze corrispondevano a tre momenti diversi all’interno del percorso termale: il bagno nelle vasche di acqua calda, il passaggio in un ambiente riscaldato di transizione, e infine la grande piscina di acqua fredda, all’aperto.
Resti architettonici e di una vasca delle terme capitoline conservati nel Cortile dei Fiorentini al MAF
Il sistema di riscaldamenteo, chiamato ipocausto, era perfettamente funzionale: gli ambienti caldi avevano un pavimento sopraelevato su colonnine (le suspensurae) sotto il quale correva aria calda, proveviente da un’imbocattura (paefurnium) alimentata continuamente a legna. Anche le pareti erano riscaldate con un sistema simile: un’intercapedine tra il muro e l’intonaco consentiva infatti la circolazione dell’aria calda proveniente da sotto il pavimento.
Plastico ricostruttivo del sistema di riscaldamento del calidarium delle terme
Più gli edifici erano estesi, maggiore era il numero delle stanze accessorie, destinate ai massaggi, alle depilazioni, alle saune. Alle terme si recavano sia uomini che donne (divisi in momenti diversi del giorno, se l’edificio non aveva una distinzione interna tra parte maschile e parte femminile), appartenenti a qualunque ceto sociale: l’ingresso ai bagni pubblici era gratuito o al massimo poteva costare un prezzo simbolico, meno di una pagnotta o di un litro di vino. I cittadini si recavano alle terme non solo per lavarsi, ma anche per fare sport (molto in voga era il gioco con la palla) o studiare nelle biblioteche che spesso sorgevano come annessi degli edifici.
Il rilievo con la personificazione del fiume Arno (fonte)
Proprio vicino alle terme centrali di Florentia, sotto l’odierno edificio dell’ex Gambrinus, si trovava anche un’altro importante monumento legato all’approvvigionamento idrico della città: un pozzo sotterraneo lungo 12 metri e largo 2,30, a cui si accedeva scendendo una scala in pietra con diciannove gradini. Al suo interno fu ritrovata una stele a bassorilievo di una divinità fluviale, probabilmente proprio la personificazione del Fiume Arno le cui acque davano alimento perenne al pozzo.
Tra le molte figure femminili che popolano il nostro Museo, abbiamo scelto le Amazzoni per celebrare questo 8 marzo. Donne, senza dubbio, che hanno avuto nell’immaginario greco un ruolo da protagoniste, di volta in volta temute, disprezzate, desiderate.
Bronzetto, copia dell’Amazzone ferita di Policleto, II sec. d.C.
All’interno di una società che oggi possiamo definire certamente e profondamente maschilista (basti pensare al fatto che la donna non era considerata soggetto di diritti legali, ed era quindi sottoposta alla tutela di un uomo per tutta la sua vita), le Amazzoni costituiscono uno degli esempi più fulgidi della rappresentazione del diverso.
Cratere a volute apulo del Pittore di Baltimora, 330 a.C., particolare del collo
I Greci descrivono le Amazzoni come una società esclusivamente femminile di donne guerriere, indipendenti, libere e autogestite. Un’interpretazione etimologica del nome, ancora dubbia in realtà e non confermata dalle rappresentazioni iconografiche, fa riferimento al fatto che si amputassero o bruciassero ancora bambine il seno destro, per poter meglio tendere l’arco e rafforzare la muscolatura del braccio armato. Quel che è certo è che facevano della lotta a cavallo il loro punto di forza in battaglia, tanto è vero che nel linguaggio comune ancora oggi un’amazzone è una provetta cavallerizza.
Sarcofago delle Amazzoni, Fine del IV sec. a.C.
Le fonti, da Omero a Strabone, passando per Esiodo e Eschilo, le collocano variamente nelle aree intorno al Mar Nero dal Caucaso alla penisola anatolica, sicuramente in un luogo ai confini della civiltà, che rispecchia le caratteristiche delle Amazzoni che sono il contrario di tutto quello che una donna greca “per bene” doveva essere. Proprio per questo molti eroi si trovano a fronteggiarle, e in queste battaglie i greci rivedevano le proprie, riconoscendo il loro sforzo civilizzatore nei confronti degli altri, dei diversi, degli stranieri: in una parola dei barbari, portatori invece del caos.
Alcune tra le più famose regine delle Amazzoni affrontano i più grandi eroi greci, in scontri che stanno in bilico tra l’odio e l’amore.
Anfora con Eracle e Ippolita, conservata al MAF
La nona delle dodici fatiche di Eracle impone all’eroe di conquistare il cinto della regina Ippolita. Teseo accompagna Eracle in questa avventura e entrambi conquistano, secondo alcune fonti con la violenza, secondo altre con l’amore, due regine delle Amazzoni: Ippolita e Antiope. Eracle finisce con l’uccidere Ippolita, convinto che lei stia tradendo la promessa fatta di consegnargli la cintura, mentre Teseo porta Antiope a Atene ed ha da lei un figlio, chiamato Ippolito, cui Euripide dedicò una tragedia.
Anfora a figure nere di Exekias con Achille e Pentesilea conservata al British Museum, 530-525 a.C., fonte
Il più iconico duello, però, resta quello di Achille e Pentesilea, che combattono nei due schieramenti opposti nella guerra di Troia. Pentesilea combatte coperta da un’armatura e grazie al suo valore risolleva momentaneamente le sorti dei Troiani e per questo viene sfidata da Achille. Durante il duello Achille non conosce l’identità del suo avversario e solo nel momento del colpo mortale incrocia gli occhi di Pentesilea e se ne innamora, scoprendo solo in quel momento di aver combattuto contro la regina delle Amazzoni. In virtù del suo amore, Achille restituisce ai Troiani il corpo di Pentesilea perchè possano darle degna sepoltura.
Chiudiamo questa galoppata (è proprio il caso di dirlo!) tra le Amazzoni con una curiosità: le Amazzoni, al pari di tutte le altre figure femminili, umane e animali, sono rappresentate sui vasi attici sempre con il tipico incarnato bianco, dovuto al confino in ambienti chiusi, cui le donne normalmente erano sottoposte, a riprova del fatto che, nonostante tutte le loro aberrazioni e le loro pretese di libertà, sempre donne rimangono agli occhi dei pittori ateniesi.
Mimetizzata con nonchalanche tra tante altre kylikes (coppe) attiche in una vetrina al secondo piano del MAF ce n’è una, a figure nere, piccolina e apparentemente anonima. A guardarla bene, però, non può non suscitare un sorriso: su entrambi i lati gruppi di uomini portano in processione un enorme fallo pieno di occhi. Sul lato principale il fallo è issato su un supporto portato a spalla da un gruppo di uomini, e nonostante la sua forma inequivocabile, termina con una testa equina con tanto di orecchie, redini e ornamenti. A cavalcioni del fallo sta un enorme satiro, a sua volta cavalcato da una figuretta che suona il corno e lo sprona con un frustino.
Sull’altro lato la scena è più o meno la stessa; sul supporto, sopra il fallo, c’è una figura umana enorme e grottesca, con la pancia prominente. In entrambi i lati, sullo sfondo, sono dipinti tralci di vite, a indicare il contesto dionisiaco in cui si svolge la scena.
Dalle fonti sappiamo che ad Atene, nel mese di Poseidon, nel periodo corrispondente a fine dicembre inizi gennaio, si svolgevano le feste Dionisie rurali, nell’ambito delle quali un po’ in tutta l’Attica si tenevano cortei fallici, con grandi simulacri portati in processione (la phallophoria, appunto, da phallos e phero, portare). Il momento culminante della festa è proprio quello in cui il grande simulacro del fallo (dalle sembianze equine per il processo della apotheriosis, la trasformazione in animale che carattrizza le creature dionisiache) viene portato in processione, quello a cui si riferisce il protagonista della commedia di Aristofane sopra citata. Il simulacro sarebbbe stato un tronco di legno con il glande modellato in cuoio o scolpito in legno di fico (particolarmente morbido), come quello che Dioniso avrebbe scolpito da sé, dopo essere risalito dagli Inferi, per utilizzarlo in un rituale mistico.
L’origine di queste celebrazioni sarebbe da rintracciare, secondo quanto dice uno scolio* agli stessi versi degli Acarnesi, in una espiazione imposta da Dioniso agli abitanti dell’Attica, che non avrebbero accolto con il dovuto riguardo l’introduzione del suo culto nella regione. Per questo li avrebbe puniti con una malattia, probabilmente il priapismo, per guarire dalla quale avrebbe ordinato di costruire privatamente e pubblicamente grandi falli in suo onore. La coppa del MAF, datata alla metà del VI sec. a.C., è l’unica raffigurazione dipinta per ora nota di queste scene.
La prima edizione italiana de “Gli Acarnesi”, risalente al 1545 (fonte)
Durante il trasporto del simulacro in processione venivano intonati canti e improvvisati scherzi e oscenità; secondo Aristole sarebbe da questi versi che discende niente meno che il genere della commedia. Ad essa sembra rimandare direttamente anche la figura panciuta che sovrasta il fallo nel lato B della coppa: essa somiglia infatti a un comasta, (partecipante agli sfrenati rituali dionisiaci) e al costume del personaggio caratteristico della Commedia Antica, con pancia pronunciata e natiche prominenti.
Con questo approfondimento, così poco serio e al contempo denso di significati storici e antropologici, il MAF vi augura buon Carnevale, e…
“…Chi vuol esser lieto sia!”
* scolio: le note che gli studiosi tardi avevano apposto a margine dei testi della letteratura classica, trascritte poi nei codici medievali, attraverso cui sono giunti fino a noi.
“Erant in quadam civitate rex et regina” (C’erano una volta in una città un re e una regina)
Apuleio, Metamorfosi, IV, XXVIII
Così cominciano le favole, anche quelle vecchie di quasi duemila anni. E proprio queste parole avrà forse declamato chi avrà stretto e srotolato tra le proprie mani il papiro di cui un frammento è giunto fino al Museo Egizio di Firenze, mentre vi tracciava un’illustrazione della favola di Amore e Psiche, raccontata magistralmente da Apuleio ne “Le metamorfosi”.
Racconta la storia che Psiche, principessa dalla incredibile bellezza divina, fu destinata dall’invidia di Venere a un matrimonio infelice, a cui la sottrasse Cupido, invaghitosi di lei. La fanciulla, trasportata in un palazzo splendente dal vento Zefiro, era destinata a non conoscere mai il proprio amante, che la visitava solo di notte sparendo prima dell’alba. Venute a conoscenza del suo segreto, e invidiose della sua ricchezza e felicità, le sorelle le avrebbero però instillato il dubbio di essere la sposa di un mostro destinato ad ucciderla, convincendola a rompere la promessa fatta al misterioso amante e a spiarlo nel sonno alla luce di una lampada. Mentre la lucerna rivela a Psiche la vera identità di Cupido che giace addormentato nel letto, uno schizzo di olio lo sveglia e il dio dell’amore scompare lasciandola da sola, nella più cupa disperazione. La giovane dovrà affrontare quattro terribili prove inflittele da Venere per cercare di redimersi, e proprio al termine dell’ultima, cadendo vittima ancora una volta della propria curiosità, vanifica gli sforzi fatti e cade addormentata in un sonno simile alla morte. Ancora una volta è Cupido che, mosso dall’amore di cui lui stesso è vittima, la salva e ottiene da un benevolo “nonno Giove” il permesso di sposare la fanciulla, resa immortale da una coppa di ambrosia, in uno sfarzoso ricevimento celeste.
La celebre versione di Amore e Psiche di Canova, conservata al Louvre (fonte)
Il papiro del MAF (PSI VIII 919), datato al II sec. d.C., appartiene ad una ristretta serie di documenti simili, provenienti da Ossirinco, che vengono riconosciuti come “fogli di bottega”, ovvero schizzi preparatori per illustrazioni forse più grandi. Il formato di questi disegni tracciati semplicemente ad inchiostro, infatti, non è compatibile con le dimensioni delle illustrazioni che accompagnavano i testi, rapportabili in genere all’ampiezza delle colonne di scritto.
Nell’immagine, come nel racconto di Apuleio, i due sono poco più che bambini; Psiche, che stringe in mano un oggetto (forse proprio la lampada?) ha ali di farfalla (simbolo per antonomasia dell’anima e della metamorfosi, e designata dalla stessa parola greca psyché) e Amore ali piumate. La metafora dell’anima come essere volante (uccello, farfalla o falena) viene da lontano, così come alato è anche l’amore, che stringe quasi sempre una torcia, simbolo della contemplazione della bellezza e del fuoco della vita. Così i due sono rappresentati anche su due cammei in sardonica appartenuti alle collezioni medicee ed esposti al MAF: nel primo addirittura Amore, con la sua fiaccola, tormenta Psiche, mentre la trascina per i capelli… Le vere pene d’amore!
Cammei conservati al MAF. Amore tormenta Psiche con una fiaccola, tirandole i capelli (fonte) (epoca augustea o XVI sec.) e Amore e Psiche abbracciati
La favola di Apuleio è da leggere come un’allegoria di ciò che l’anima umana, deve superare e imparare per ottenere la propria redenzione: Psiche perde a causa della sua naturale curiosità l’originaria condizione di beatitudine, e soltanto attraverso una lunga serie di travagli, una maturazione interiore e l’intervento della divinità (Amore) potrà ottenere il riscatto finale.
Amore e Psiche, II sec. d.C., Firenze, Galleria degli Uffizi (fonte)
Un racconto complesso, nutrito di simboli e teorie filosofiche, che però ancora oggi incanta come solo una favola sa fare. E con questa interpretazione più leggera e spensierata il MAF vi augura buon San Valentino!
Il 26 gennaio del 1854 nasceva a Verona il primo Direttore del Regio museo archeologico di Firenze, Luigi Adriano Milani. In occasione del compleanno di uno degli artefici dell’attuale Museo archeologico di Firenze vogliamo raccontarvi una storia poco nota, legata ai kouroi che ancora oggi portano il suo nome, attraverso le parole degli stessi protagonisti (qui e qui altri approfondimenti).
Luigi Adriano Milani seduto sulla base del tumulo di Casale Marittimo nel Giardino del Museo Archeologico di Firenze
Le due statue dette Apollo e Apollino furono legate indissolubilmente al nome di Luigi Adriano Milani da Antonio Minto, suo successore alla guida del museo, che gli attribuì il merito del riconoscimento dei due marmi greci e il conseguente acquisto dalla collezione di Fabrizio Briganti Bellini a Osimo. Ma come erano finite le due statue in questa collezione privata?
I due kouroi furono rinvenuti probabilmente tra il 1656 e il 1691, in un terreno poco fuori Osimo, di proprietà della mensa vescovile, in un’area popolata già dall’età del Ferro e nella quale si colloca anche una villa romana tardo-repubblicana. La loro prima apparizione risale al 1741, quando il giovane erudito Annibale degli Abbati Olivieri , andando a far visita all’amico monsignor Pompeo Compagnoni, vescovo di Osimo, le vide nella galleria che costeggiava il piacevole giardino del palazzo vescovile. Immediatamente pensò che fossero molto antiche, simili alle statue degli egizi per la rigida postura. Ripartì da Osimo, ma per molto tempo i due fanciulli rimasero impressi nella sua memoria tanto che quaranta anni dopo, quando ormai era un affermato studioso, volle cercar di scoprire qualcosa di più su quelle statue. Si risolse allora a chiederne notizia, e anche un disegno, a Luca Fanciulli, teologo e canonico della cattedrale osimana. Ricevendo la lettera dell’illustre studioso e mecenate pesarese al Fanciulli dovettero tremare le ginocchia. Di queste statue, infatti, non c’era traccia.
L’Apollo Milani e il disegno inviato dal Fanciulli all’Olivieri
Pian piano il sacerdote indagò e ispezionò tutti i sotterranei e i nascondigli del palazzo vescovile fino a ritrovare i …rottami di dette statue in un buco di stanza che si stentò ad aprire… e provvide dunque a ripulirle per la polvere e altre sozzure… . Non pago, cercò di capire come mai due statue così belle fossero finite lì. Scoprì, dunque, che venne in testa ad un canonico di farsene padrone; onde accordatosi col Vicario Capitolare di notte tempo le fe’ portar via, e perchè la cosa restasse più occulta, furon fatte passare per la Cattedrale poste sopra due barelle e avvolte con alcune coperte…ma poi sapendosi ch’erano state portate via, ne fu avanzato ricorso a Monsignor Tesoriere, il quale ordinò che si riportassero all’Episcopio nel solito sito, biasimando altamente il pensiero che fu detto avevasi di collocarle nell’atrio del Seminario. Il principale sospettato dello spostamento così rocambolesco è Stefano Bellini, all’epoca rettore del Seminario ospitato nel Palazzo Campana. L’iniziativa fu evidentemente giudicata sospetta e per prevenire altre intemperanze da parte del Bellini, che continuando ad aver la stessa sete (di farsene padrone), e godendo la grazia di Sua Eminenza gliene ha fatta più volte istanza per averle; ma neppure ha avuto il merito di sapere il sito dove stanno. A ben guardare la grazia di cui godeva presso il nuovo vescovo Guido Calcagnini non doveva essere così grande se il Vescovo fece portar via di là le dette statue senza far penetrare ad alcuno dove l’avesse poste costringendo anni dopo il Fanciulli ad una caccia al tesoro per ritrovarle.
Fotomontaggio che riunisce l’Apollino con la sua testa, realizzato da M. Iozzo in collaborazione con F. Guerrini
Non furono spostamenti indolori: durante il primo tentativo di furto le statue letteralmente persero le teste! Quella dell’Apollo fu poi ricongiunta, mentre quella dell’Apollino, al quale erano state rotte anche le braccia, è rimasta nascosta fino in tempi recentissimi all’interno della collezione di famiglia dei Bellini. Il costernato Fanciulli scrive infatti all’Olivieri: Mi ricordo …benissimo d’averla veduta anni sono quando aveva la testa… ma adesso …manca la testa; e mi vien detto che fu portata via quando seguì il furto e fu fatta divenire acefala quando si dovette restituire insieme all’altra per ordine del Monsignor Tesoriere.
I due fratelli Bellini: a sinistra il vescovo Stefano, a destra Ubaldo
La spregiudicatezza dei due non sfugge al Fanciulli, che tiene a precisare che la statua fu fatta divenire acefala, insinuando dunque una rottura intenzionale, finalizzata all’impossessamento almeno della testa della statua. Passano ancora gli anni, ma Stefano Bellini e il fratello Ubaldo continuano a inseguire le due statue per la loro collezione. Per chiarire meglio l’attitudine familiare al collezionismo dei due fratelli sono eloquenti le parole di Augusto Vernarecci, canonico e studioso locale, riguardo al patrimonio della città di Fossombrone: “… fu fatale pe’ monumenti forosempronesi che dal 1799 al 1808 fosse vescovo di Fossombrone mons. Stefano Bellini d’Osimo: giacchè il fratello di lui, Luigi (Ubaldo), appassionato antiquario, spinto a spadroneggiare, trasportò nel Museo di famiglia ciò che di meglio trovossi in quegli anni in Fossombrone” (A. Vernarecci, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri).
Nel 1806 il cardinale Guido Calcagnini di fronte all’ennesima richiesta da parte dei due, per i quali il possesso delle statue non è se non vagheggiato, non posseduto chiede una relazione al conte Pietro Alethy sulle statue.
Lettera del 4 ottobre 1806 con la relazione del conte Pietro Alethy
Il conte non usa mezzi termini: quanto a me io mi farei scrupolo di dar loro quello che non può esser nelle loro mani che per breve età; e che mutando poi di possessione, facilmente muterebbe luogo, e verrebbe a perdersi per Osimo. Auspica invece che le statue vengano donate alla città, della quale illustrano la storia e l’antichità. La cessione è nuovamente bloccata e Ubaldo Bellini risponde piccato, minimizzando il valore delle sculture per la storia della città, …ma quale valore riceverà la città nostra da un marmo ritrovato in una campagna, del quale ignoriamo perfino il soggetto rappresentato… e addiritura il numero! Una e non due sono le statue; giacchè una di esse (l’Apollino) non può nominarsi tale, non essendo altro, cheun frammento senza capo, senza braccia, e senza gambe.
Calcagnini resiste, non così il suo successore, il cardinale Castiglioni, che probabilmente nel 1808 cede le statue ai Bellini, che le trasferiscono nel palazzo di famiglia, di fronte al Vescovado. Nel 1901 i due kouroi si persero per Osimo: Luigi Adriano Milani, riconoscendo immediatamente l’antichità e il valore delle due statue, le acquistò dall’erede dei fratelli Bellini portandole a Firenze, realizzando così i timori espressi dal conte Alethy quasi un secolo prima.
I PROTAGONISTI
Annibale degli Abbati Olivieri (1708-1789): nobiluomo pesarese compì studi Bologna, Pisa e Urbino. I suoi interessi abbracciarono tutti i campi dell’antiquaria e i suoi scritti di archeologia e numismatica lo portarono ad avere un ruolo di primo piano tra gli eruditi del tempo. Scrupoloso studioso, fu anche mecenate della sua città natale Pesaro alla quale donò la sua ricchissima biblioteca e la sua collezione di antichità.
Luca Fanciulli (1728-1804): canonico e teologo della Cattedrale di Osimo. Studiò presso il seminario Campana dove in seguito insegnò teologia. Fu vicario generale del vescovo Compagnoni, del quale fu anche esecutore testamentario. Autore di numerosi scritti si interessò soprattutto delle memorie sacre e profane di Osimo.
Stefano Bellini (1740-1831): sacerdote, rettore del seminario Campana, in seguito vescovo di Fossombrone e Recanati, collezionista di antichità.
Ubaldo Bellini (1746-1842): sacerdote, fratello di Stefano, umanista e numismatico.
NB: tutti corsivi colorati sono tratti dalle missive, dalle opere e dai documenti d’archivio
Per approfondire:
M. Landolfi-G. de Marinis (a cura di), Kouroi Milani. Ritorno ad Osimo, Catalogo della mostra 25 novembre 2000-30 giugno 2001, Roma 2000.
M. Luni (a cura di), I Greci in Adriatico nell’età dei kouroi, Atti del convegno internazionale, Osimo-Urbino 30 giugno-2 luglio 2001, Urbino 2007
M. Luni-M. Cardone, I Kouroi Milani ad Osimo tra Seicento e Settecento, Rendiconti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, IX-4, 1998, pp. 669-706.
Qualche volta i reperti del nostro museo i regalano emozioni inattese:
spesso ci capita di vedere i visitatori camminare per le sale del museo in maniera quasi distratta e restare poi letteralmente folgorati girando un angolo o attraversando una porta e trovandosi di fronte a opere particolarmente stupefacenti.
La Chimera certo, il Vaso François (sempre più grande di quanto ci si immagini vedendolo in foto), ma anche l’Idolino di Pesaro o la Testa di cavallo Medici-Riccardi che dalle loro postazioni ci offrono splendidi scorci del Palazzo della Crocetta.
I grandi bronzi, tra le opere più apprezzate del MAF
Anche reperti meno noti, ma molto particolari spesso sono oggetto di stupore, come la fibula Corsini o il ramaiolo con le manine.
Talvolta accade anche che qualcuno, per il suo personale vissuto, si commuova fino a piangere di fronte a un oggetto particolarmente amato, talaltra che torni espressamente a trovarlo come fosse un vecchio amico.
È proprio quanto è successo qualche giorno fa, quando questa signora è tornata a vedere l’oggetto della sua tesi discussa luglio del 1950. All’epoca le fu concesso addirittura uno spazio apposito al di fuori delle sale del museo, per studiare nei minimi dettagli il reperto!
In tempi più recenti, invece, il vaso François, ancora nella sua vecchia collocazione, ha folgorato uno studente di liceo, che poi, iscrittosi all’università, ha voluto studiarlo di nuovo nella sua tesi di laurea!
Due storie tra tante, e sicuramente più comuni di quanto possiamo sospettare, dovute al fascino che ancora oggi i capolavori senza tempo esercitano su tutti noi; due storie che ci sono sembrate il modo migliore per ringraziare tutti gli oltre 76.000 visitatori che nel 2019 hanno attraversato le sale del MAF, con occhi curiosi, voraci, nostalgici o assonnati. Vi aspettiamo ancora e ancora, cari visitatori. E vi facciamo i nostri migliori auguri per il nuovo anno!
Non è potente come Zeus né prestante come Ares, né risplende come Apollo. Eppure, senza di lui, Zeus non potrebbe scagliare i suoi fulmini e il sole non compirebbe ogni giorno il suo percorso nel cielo sul suo carro alato; e gli dei gli sono così grati, che la sua sposa è nientemeno che Afrodite.
Efesto è figlio di Zeus ed Era (o, secondo Esiodo, della sola Era, che lo avrebbe concepito da sola per vendicarsi dei molti tradimenti del marito); è il dio artigiano, creatore delle case e delle armi degli dei, di automi e marchingegni fantastici a cui dà vita nella sua fucina, immaginata nell’isola di Lemno o nelle profondità dell’Etna. Nonostante questo, Efesto è confinato ai margini del dorato mondo celeste: è continuamente oggetto dell’ilarità divina perché è storpio (nelle società primitive era artigiano chi era inabile alla caccia e alla guerra!), ed è l’unico dio che subisce l’onta di una rovinosa caduta dall’Olimpo, durata addirittura un giorno e una notte. Egli secondo Omero sarebbe stato scaraventato giù in un impeto di rabbia da Zeus, poiché in una lite tra i genitori aveva parteggiato per la madre, o, secondo Esiodo, dalla stessa Era, che non sopportava l’idea di un figlio nato gracile e sgraziato. Per vendetta Efesto invia alla madre, con la scusa di una riappacificazione, un trono magico che la imprigiona non appena seduta, tanto che Zeus promette Afrodite in sposa a chiunque riesca a liberarla. Soltanto Dioniso, con le lusinghe del vino, risce a convincere Efesto a tornare sull’Olimpo e liberare la madre.
Vaso François: Efesto riaccompagnato all’Olimpo su un mulo trainato da Dioniso. Afrodite, davanti, lo aspetta.
Proprio questo è al centro di uno dei fregi sulla pancia del vaso François, sul retro: mentre Ares assiste alla scena, scornato per non essere riuscito a liberare Era e per dover subire la beffa di Vedere la sua amata Afrodite andare in sposa a uno storpio, Efesto fa il suo ingresso trionfale sull’Olimpo, accompagnato dal corteggio dei satiri di Dioniso. Ingresso trionfale, sì, ma a dorso di mulo anziché su una quadriga, come di solito fanno gli dei: non dimentichiamo infatti che si tratta pur sempre di un emarginato, come il calamo impietoso del pittore Kleitias ricorda anche rimarcando la sua zoppia. I piedi del dio, infatti, visibili entrambi sotto la pancia del mulo, sono storti e posti in maniera innaturale.
Efesto al centro della coppa collocata di recente al MAF
Ben più regale è invece l’Efesto rappresentato sulla coppa attica a figure rosse che recentemente ha preso il posto, nella vetrina, di quella momentanamente trasferita al Metropolitan museum of Art di new York. Qui il dio, è assiso su un trono semovente (alato e con le ruote), forse costruito proprio da lui come il carro alato utilizzato per trainare il sole nel cielo. Questa interessante presentazione del dio, che ci dà forse una versione diversa del suo ritorno all’Olimpo, corrisponde esattamente a quella che si trova su una coppa proveniente da Vulci e conservata a Berlino, oggi purtroppo dispersa.
Il trono su ruote richiama quello su cui in genere è assiso Trittolemo, che doveva portarlo in giro per il mondo a diffondere i segreti dell’agricoltura di cui Demetra gli aveva fatto dono, e che si muoveva grazie alla spinta di serpenti o draghi alati che facevano girare le ruote. Nella coppa del MAF e in quella di Berlino Efesto è riconoscibile dall’attributo del martello; in quella di Berlino porta anche il kantharos (il calice per il vino) stretto in una mano, ed è questo dettaglio che farebbe pensare all’illustrazione del momento del suo ritorno sull’Olimpo, avvenuto proprio grazie alla “persuasività” di Dioniso.
Un volo che dura da 2500 anni, quello di Eros; un volo dall’Attica all’Etruria prima, alle vetrine del MAF poi e ancora, adesso, fino al Nuovo Mondo, a New York.
La preziosa coppa corallina che lo “ospita”, firmata dal vasaio ateniese Chachrylion, datata al 510 a.C. e proveniente da Orvieto, si appresta a solcare l’oceano per essere esposta al Metropolitan Museum of Art. Il prestito, concesso per ben 4 anni, rientra nel quadro dell’Accordo Internazionale Italia-USA firmato nel 2006, in base al quale gli USA hanno restituito molte opere d’arte antica e moderna illecitamente uscite dall’Italia, mentre il nostro Paese concede prestiti a lungo termine e favorisce mostre importanti con opere che generalmente sarebbero difficilmente concesse.
All’esterno della coppa si trovano le imprese di Teseo, mentre l’interno è dipinto con vernice corallina e decorato da una figura centrale isolata, nel tondo: Eros alato che sembra sospeso nel vuoto. Il dio, rappresentato in questo periodo come un giovane nudo (e non, ancora, con l’immagine del puttino che ci è tanto familiare), è ritratto con una prospettiva piuttosto contorta, con il torso di prospetto, le gambe di profilo e le ali una dietro l’altra. Fluttua in aria, mentre regge un fiore di loto, simbolo di bellezza, desiderio e fertilità.
Questa pittura vascolare è ritenuta una delle più antiche raffigurazioni sulla ceramica attica di Eros senza Afrodite, e sembra rientrare in un filone iconografico del dio sviluppatosi proprio a partire dagli ultimi decenni del VI secolo, probabilmente in relazione alla creazione culti ufficiali in suo onore ad Atene.
È un dio strano, Eros: non è annoverato tra gli dei dell’Olimpo da Omero, ma sarebbe, secondo le più antiche cosmogonie, la forza creatrice primigenia a cui si deve addirittura l’origine della stirpe divina; secondo Esiodo alla sua potenza sarebbero da ricondurre l’origine del Buio e della Notte, che a loro volta generano il Vento, la Luce del giorno e tutta la progenie di Urano e Gea. Secondo Platone l’etimologia del nome Eros lo qualificherebbe come “colui che scorre dentro” e altrove il filosofo si riferisce a lui come a un daimon, cioè una figura intermedia tra gli uomini e gli dei. Secondo le dottrine orfiche, che vivono nel VI secolo un periodo di particolare favore ad Atene, Eros sarebbe nato da un uovo d’argento. Alla sua schiusa, il giovane dio avrebbe svelato il contenuto dell’uovo, le due metà primordiali della Terra e del Cielo, che spinti dall’Amore avrebbero procreato tutti i loro discendenti.
L’ipotesi del direttore del MAF Mario Iozzo è che si tratti proprio di questa versione di Eros che troviamo rappresentata sulla coppa. Non vediamo infatti dove stia volando Eros, che sembra fluttuare tra terra e cielo, e il disegno nasconde un interessante dettaglio: i genitali del dio non ci sono, mentre in tutte le altre figure maschili che volano, nell’arte greca, si vedono sempre! E se questa omissione fosse voluta? Non potrebbe trattarsi di un riferimento alla natura androgina ed ermafrodita del dio? Nei Poemi Orfici si dice infatti che i suoi genitali fossero “posti dietro, verso l’ano”, e quindi non erano visibili di profilo, proprio come è nella nostra coppa.
Questo Eros sarebbe dunque colui che garantisce, con la sua forza catalizzatrice e la spinta alla coesione, l’armonia del cosmo, da cui scaturisce la creazione; la forza inarrestabile da cui scaturisce la vita.
La coppa resterà a New York da ottobre 2019 a ottobre 2023; in occasione del trasferimento il direttore del Museo terrà una conferenza che illustrerà l’importanza del vaso e i vari aspetti che lo rendono così raro e speciale. Al suo posto, nel Museo fiorentino, sarà collocata un’analoga coppa, della medesima importanza, custodita da decenni nei magazzini, con una singolare raffigurazione di Efesto (dio del fuoco e dei lavori artigianali, quindi anche dei vasai stessi e dei pittori che lo raffiguravano), assiso su un singolare trono alato, probabilmente forgiato da lui stesso, dio dei metalli e delle tecniche di fusione! Esiste solo un’altra raffigurazione simile, su una coppa attica a figure rosse dlla stessa epoca, oggi esposta nel Museo di Berlino.
Se volete seguire da vicino il viaggio della coppa, potete farlo cercando sui nostri social #ilvolodieros!
Per i riferimenti bibliografici e approfondimenti: M. Iozzo, La Kylix fiorentina di Chachrylion ed Eros Protogonos Phanes, in in Antike Kunst 55, 2012, pp. 52-62.