Avete preparato tutto il necessario per la scuola? Grembiuli, quaderni, merenda e soprattutto penne, matite e colori!
Nell’antico Egitto sicuramente non tutti i bambini erano destinati ad andare a scuola. I più fortunati che ricevevano un’istruzione però, vivevano una quotidianità a volte molte diversa da quella di oggi. In alcuni casi studiavano da soli o in piccoli gruppi con una sorta di precettore, non necessariamente si andava in un luogo deputato all’insegnamento, l’equivalente della nostra scuola, ma si rimaneva in casa, le materie di studio erano diverse e diversi erano i metodi di insegnamento e di mantenimento della disciplina.
Una cosa però era necessaria, allora come ora: l’astuccio!
Rilievo degli scribi, dalla tomba di Horemheb, Saqqara, Nuovo Regno (XVIII dinastia, regni di Tutankhamon e di Ay 1333-1319 a.C.).
Vi siete mai chiesti come fosse composta la cartella dei bambini egizi? Come facevano i loro compiti, su cosa scrivevano e con quale strumento?
I bambini diventavano scolari presto, intorno ai 5 anni, e terminavano gli studi di base circa 10 anni dopo, con il conseguimento del titolo di scriba. Dovevano imparare a leggere e scrivere in tre modi diversi: in geroglifico, in ieratico e in demotico, tre sistemi di scrittura completamente diversi che servivano per trascrivere la stessa lingua. Un po’ come i loro compagni moderni che si trovano ad imparare lo stampato maiuscolo, il minuscolo e il corsivo, ma con un’infinità di segni in più! Ovviamente c’era bisogno di molto esercizio e per i primi tentativi degli studenti non potevano certo essere sprecati dei fogli di papiro, che erano costosissimi e quindi riservati a testi molto importanti.
Ostraka (scaglie di pietra e vasi rotti) con iscrizioni in demotico, Nuovo Regno, XIX-XX dinastia.
I bambini dunque scrivevano sugli equivalenti delle nostre “brutte copie”, cioè schegge di pietra oppure pezzi di vasi rotti, con l’ausilio dello stilo, una sorta di bastoncino appuntito o sfrangiato, come un piccolo pennino o pennellino quindi, da scegliere in base allo stile calligrafico del testo da scrivere. Anche l’inchiostro doveva essere preparato sul momento, sciogliendo nell’acqua i pigmenti, altrimenti si sarebbe seccato diventando inutilizzabile. Nella cartella dei bambini era presente anche una tavoletta con due incavi per l’inchiostro e una scanalatura centrale che serviva per appoggiare lo stilo e le boccette per la preparazione dell’inchiostro. Quanta fatica rispetto alle nostre penne! Una cosa però è rimasta la stessa: i colori usati erano il nero, per i testi, e il rosso, per i titoli o per le cose più importanti che meritavano di essere evidenziate col colore.
Set scrittorio e vasetti per la preparazione dell’inchiostro, Nuovo Regno, Epoca Tarda.
Un particolare inaspettato è che tra le competenze che uno scriba doveva acquisire nella sua istruzione di base c’era anche lo scrivere incidendo la pietra. Nel suo kit per la scuola, quindi, non potevano mancare scalpello e mazzetta per scolpire i geroglifici.
La stele funeraria del maggiordomo Khentekhtayaun, esempio di scrittura geroglifica.
Alla fine del primo corso di studi si poteva proseguire con l’apprendimento di altre materie, come le lingue straniere, la medicina, l’astronomia o l’architettura. Per questi studi specialistici era necessario studiare presso le Case della Vita, vere e proprie scuole allestite di solito presso i templi.
Probabile raffigurazione di scolaro che porta una cartella e un cestino. Museo Egizio del Cairo [L’Egitto dei Faraoni”, Vol. 6: I Tesori del Museo Egizio del Cairo (testi A. Amenta, foto A. De Luca); Ed. White Star/L’Espresso Editoriale, 2005, pp. 86, 88].
Numerosi papiri ci parlano della vita degli scolari, uno dei più famosi è il papiro Lansing conservato al British Museum. Tra le sue righe troviamo rimbrotti e precetti di uno scriba al suo allievo. Con gli insegnamenti di questo antichissimo maestro vi auguriamo un buon rientro a scuola!
Frammento del papiro Lansing, XX dinastia, conservato al British Museum
Di giorno scrivi con le tue dita, di notte leggi ad alta voce.
Diventa amico del rotolo e della tavolozza, rendono più felici del vino.
Felice è il cuore di chi scrive: è giovane ogni giorno.
Se gli antichi egizi avessero celebrato la #giornatadellaterra, certamente oggi avrebbero onorato il dio Geb!
Geb, la terra, è figlio di Tefnut, l’umidità, e Shu, l’aria secca; sposò sua sorella Nut, il cielo, dalla quale ebbe quattro figli – Osiride, Iside, Seth e Nefti.
Sarcofago di una anonima cantatrice di Amon, XXI dinastia (1069-945 a.C.), esposto al MAF
La tradizione cosmogonica è piuttosto complicata: esistono più versioni dei miti, strettamente legate alle città in cui vennero elaborate. Nella cosmogonia di Eliopoli (corrispondente alla città odierna del Cairo) il demiurgo (il sole) generò una prima coppia di divinità, l’aria secca Shu e l’aria umida Tefnut, da cui nacquero Geb e Nut, separate da Shu che si interpose tra loro. Diversi sono i miti di Ermopoli o di Menfi. Nell’iconografia legata alla cosmologia eliopolitana Geb è solitamente raffigurato disteso a terra, sormontato da Shu che sostiene Nut inarcata su di lui. Nell’antico Egitto il modo di rappresentare gli elementi del cosmo era prettamente figurativo: il cielo era una vacca o una donna piegata ad arco, che toccava la terra con le mani e i piedi; il sole lo attraversava, partorito ogni giorno dalla vacca o dalla donna celeste.
Geb talvolta viene raffigurato con un’oca sulla testa, che corrisponde al geroglifico del suo nome (Geb infatti è chiamato il “Grande starnazzatore”!); l’oca è un simbolo di prosperità, tanto che la successione di un nuovo faraone veniva annunciata dalla liberazione di quattro oche, come augurio di un regno lungo e prospero. Il geroglifico riprodotto nell’immagine si legge infatti Geb, ma anche Aped, oca.
Le “Oche di Meidum”, un dipinto parietale dalla mastaba di Nefermaat e Itet, Antico Regno (conservate al Museo del Cairo). Le oche grigie e rosse, due su sei, sono proprio l’oca raffigurata nel geroglifico “geb” o “aped”, mentre le altre quattro sono quelle utilizzate in un altro geroglifico. Questo dipinto, per il suo eccellente stato di conservazione, è stato anche definito “Egypt’s Mona Lisa”.
Con il passare del tempo, il nome del dio venne associato sempre più spesso alla Valle, terra abitabile dell’Egitto, e quindi alla vegetazione, alla fertilità, al dominio sugli animali. Proprio per la stretta connessione con l’elemento vegetale, Geb viene raffigurato talvolta coperto di piante e frutti o con la pelle verde o nera, il colore della terra fertile del Nilo (in geroglifico Kemet, che è anche il nome con cui gli Egizi chiamavano il loro territorio). Geb governò il mondo antico, ricco e fecondo, fin quando si stancò di regnare; allora il suo posto venne preso dai suoi figli litigiosi Osiride e Seth. Geb venne associato anche al mondo degli inferi, la Duat, in quanto si credeva che intrappolasse le anime per impedire loro di ascendere al cielo, nei campi Iaru.
Più o meno l’idea di chi, tremilacinquecento anni fa, depose questo carro di legno -smontato- nella tomba del fratello di latte del faraone Amenofi II (1425-1397 a.C.) doveva essere quella: il carro avrebbe continuato a viaggiare per l’eternità, nel regno di Osiride, rincorrendo gli animali da cacciare con la guida esperta del suo proprietario Kenamun. E il carro in effetti ha viaggiato a lungo, attraverso secoli e millenni, ha solcato il Mediterraneo sulle navi che trasportavano il bottino della spedizione ottocentesca di Champollion e Rosellini e ancora oggi lo possiamo ammirare, perfettamente conservato nonostante la fragilità dei materiali che lo compongono, nelle sale del Museo Egizio di Firenze.
Il clima caldo e secco dell’Egitto ha infatti consentito la conservazione di materiali organici quali legno, avorio, e persino la corteccia di betulla che era stata utilizzata per i rivestimenti di tutti i giunti; solo le cinghie in cuoio che vediamo oggi sul pianale e sul timone sono un restauro ottocentesco, basato comunque sui frammenti di cuoio rinvenuti insieme al carro.
Disegno ricostruttivo del carro e confronto con una pittura, dalla prima pubblicazione dei materiali fatta da Rosellini
Il carro, realmente utilizzato dal proprietario, come dimostra l’usura di alcune sue parti, è di produzione egiziana e non straniera, come si ritenne al momento del rinvenimento, ed è confrontabile con i carri di Tutankhamon conservati al museo del Cairo. La sua struttura dimostra una progettazione estremamente avanzata, che consentisse la massima velocità, resistenza e contemporaneamente il massimo comfort di guida. Il pianale poggiava su una rete di corregge di cuoio intrecciate in modo da ammortizzare la corsa sullo sterrato; le ruote, con soltanto quattro raggi, sono leggerissime e senza cerchioni (se li avevano, probabilmente erano anch’essi di cuoio), i legni che compongono le varie parti sono diversi a seconda delle loro specifiche qualità e alcuni addirittura fatti venire appositamente da fuori l’Egitto.
Dettagli del pianale, della ruota e del giogo
Su questo mezzo potevano salire fino a due persone, in piedi (l’auriga e il proprietario che impugnava l’arco, oggi appoggiato sul pianale), e doveva essere trainato da una coppia di cavalli di piccola taglia, alti al massimo 120 cm al garrese: gli antenati dei nostri pony, insomma.
Un confronto con un mezzodel tutto analogo, sebbene molto più tardo, si trova nel c.d. “rilievo dei mestieri”, conservato poco distante dal carro sempre nel Museo Egizio di Firenze; nel rilievo sono raffigurati diversi artigiani al lavoro, e nell’angolo in basso a destra si vede proprio un artigiano intento nella rifinitura di un carro a due ruote!
Il rilievo dei mestieri, XXVI dinastia, 664-525 a.C.
Kenamun, il cui sarcofago è stato recentemente identificato nei depositi del Museo di Firenze, ha una storia particolare; la sua mummia, danneggiata dall’acqua nel trasporto dall’Egitto a Livorno, fu infatti lasciata a Pisa, dove fu sbendata e dove è stato ritrovato lo scheletro ripulito, conservato nel museo di Calci. Kenamun, allattato dalla stessa balia che aveva nutrito Amenofi II, ricopriva la carica di Gran Maggiordomo del Re ed era un personaggio molto influente a corte, anche se poi cadde probabilmente in disgrazia, come dimostra l’avvenuta distruzione nella sua tomba del suo nome e della sua figura. Le iscrizioni sulla tomba tuttora ricordano “il cocchio che Sua Maestà gli diede come segno del suo favore” e che egli volle con sé nella vita eterna, proprio quello che possiamo ammirare ancora oggi nel nostro museo.
La testa (fonte) e il sarcofago di Kenamun (fonte)
E se volete sentire il racconto dalla voce dello stesso Kenamun… questo è il link al video realizzato dall’Università di Pisa in occasione della mostra a lui dedicata nel 2014, “L’undicesima mummia”. https://www.youtube.com/watch?v=Iu5JpFndpBY
Sapete da dove viene il nome del primo mese dell’anno? Ianuarius, gennaio, era per i romani il mese dedicato a una delle loro più antiche divinità, Ianus (Giano), il dio bifronte, protettore degli inizi e dei passaggi, un antico dio squisitamente latino che avrebbe portato le leggi tra i popoli primitivi del Lazio, che nelle preghiere era sempre invocato al primo posto e le porte del cui tempio si aprivano solo quando iniziava un periodo di guerra. La sua residenza, ovviamente, era immaginata proprio sul colle che da lui prende il nome, il Gianicolo. Il dio era rappresentato con due volti che guardavano in direzioni opposte: come una porta, segnava un passaggio, contemporaneamente l’inizio e la fine, l’interno e l’esterno, l’entrata e l’uscita.
Il mese Ianuarius con la rappresentazione di Giano in una incisione del XVII secolo conservata al British Museum (fonte)
Il nome di Giano è intimamente connesso anche al termine che i Romani usavano per indicare la porta, ianua. Per questo vogliamo celebrare l’inizio del 2019 proprio come avrebbero fatto nell’antichità, onorando Giano e tutti i passaggi del Museo, siano essi reali o immaginari, custoditi in una vetrina o “a portata di piedi” per tutti i nostri visitatori.
Non è scontato notare, infatti, visitando le sale del primo piano del Museo, che le porte che introducono da una sala in un’altra non sono porte qualunque: mentre nella sezione egizia richiamano le porte dei templi sul Nilo, sormontate dal disco solare alato, nel settore etrusco sono decorate con cornici analoghe a quelle delle porte delle tombe etrusche, con il caratteristico “becco di civetta”. Un’indulgenza al gusto dominante a fine Ottocento, quando il museo fu per la prima volta collocato nel Palazzo della Crocetta, e grande potere evocativo era affidato all’allestimento degli ambienti come fossero una vera e propria scenografia, in stile con i reperti che contenevano.
Una porta della sezione etrusca, a sinistra, e una della sezione egizia, a destra
Porte di ben altra natura sono invece quelle che si trovano riprodotte sulle urne cinerarie etrusche: talvolta un portoncino isolato sulla fronte della cassa, talaltra un battente dischiuso alle spalle di un triclinio. Se non bastasse l’oggetto in sé, le figure di demoni alati che spesso fanno la guardia a questi passaggi ne tradiscono la natura ultraterrena: sono le porte della tomba e contemporaneamente la porta degli Inferi, sulla cui soglia i defunti danno l’estremo addio ai loro cari.
Nella sala IX del Museo, addirittura, una vera porta di pietra di una tomba sembra voler aprire un varco nella parete, con i suoi cardini e il suo battente, esempio piuttosto raro rispetto ai più comuni lastroni di pietra appena sgrossati. La porta segnava l’ingresso di una tomba di Chiusi, e risale al V o IV sec. a.C.
Le porte che simboleggiano l’ingresso nell’Aldilà, il regno di Osiride, sono consuete anche nella rappresentazione delle stele egizie, dove spesso fanno da cornice alle iscrizioni, come nella stele di Khentekhtayaun, in cui sono elencati i nomi di tutti i parenti del defunto (con specificato di quale grado di parentela si tratta) autori della dedica e della preghiera incisa in caratteri geroglifici.
La stele funeraria del maggiordomo Khentekhtayaun
Le vivide immagini che ci restituisce la ceramica attica, invece, raccontano la vita di tutti i giorni nell’antica Grecia. Qui troviamo le porte delle mura urbiche e le porte delle case, con i battenti e le borchie, così sorprendentemente simili alle nostre anche se si tratta della dimora divina di Peleo e Teti. Avreste mai detto, per esempio, che anche la porta di casa di una dea potesse avere la gattaiola? Tra i tanti minuziosi dettagli usciti dal calamo di Kleitias, il pittore del vaso François, c’è anche la piccola apertura che spesso in Grecia veniva lasciata nella porta di casa, per consentire il passaggio a ricci o piccoli animali selvatici ma utili all’uomo perché liberavano le case dai topi.
La porta della casa di Peleo e teti, a sinistra, con la gattaiola, e la porta delle mura di Troia da cui escono i soldati, con i proiettili pronti ad essere lanciati ammassati tra i merli (Vaso François).
Allora, non vi abbiamo invogliato a iniziare il 2019 varcando ancora una volta la soglia (anzi le soglie!) del MAF? Buon anno a tutti!
Sabato 22 e domenica 23 settembre si celebreranno, nei musei e nei luoghi della cultura di tutta Italia, le Giornate Europee del Patrimonio (GEP) 2018, con tema “L’Arte di condividere”.
Le GEP costituiscono ad oggi il più partecipato degli eventi culturali in Europa, promosso fin dal 1991 dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione Europea. In Italia vi aderiscono i luoghi della cultura statali e i musei locali, ma anche gallerie, fondazioni e associazioni private. Quest’anno, inoltre, l’iniziativa ha un valore ancora più forte, perché il 2018 è l’anno europeo del patrimonio culturale: un’occasione per riflettere e dialogare sul valore che il patrimonio culturale riveste per la nostra società, nei diversi settori della vita pubblica e privata, imparando ad apprezzarlo e custodirlo.
Per tutto il week end saranno organizzate nei musei statali visite guidate e iniziative speciali, mentre una apertura straordinaria con il biglietto di ingresso al costo simbolico di 1 euro è prevista per la sera di sabato 22 settembre.
Al MAF sono previste due iniziative. La sera di sabato 22 il museo sarà aperto dalle 20 alle 23; in due turni, alle 20 e poi di nuovo alle 21,30, si svolgerà la visita guidata partecipata dal titolo “Delitto in Egitto – Mistero al Museo”. L’attività è adatta per adulti e bambini (dagli 8/9 anni), che dovranno seguire la guida e fare luce su un misfatto vecchio migliaia di anni! Per partecipare è OBBLIGATORIA la prenotazione tramite il modulo online disponibile alla pagina ISCRIZIONI.
La mattina di sabato 22 e di domenica 23 (ore 10 e 11,30), e la sera di sabato 22 (ore 20,30 e 21,30) invece, è prevista una speciale visita guidata dal titolo “La collezione egea e geometrica del MAF”, un percorso attraverso simboli e contaminazioni tra civiltà. Per partecipare alle visite guidate NON occorre prenotazione, basta presentarsi all’orario prescelto.
Per seguirci e condividere la tua esperienza sui social puoi usare gli hashtag: #GEP2018 #artedicondividere #EuropeForCulture #museoarcheologicofirenze #MAF. Vi aspettiamo!
Tra le recenti acquisizioni del Manf, presentate al pubblico in occasione della mostra L’Arte di donare. Nuove acquisizioni del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, figurano due mummie di canidi che vengono ad arricchire il già consistente gruppo di mummie animali in possesso del museo, costituito da ben 65 esemplari.
Mummie di canidi esposte alla mostra
Le due mummie, assegnate al Museo nel 2013 dal Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale di Roma, risultato di una indagine sulla liceità del possesso, sono provenienti da un lascito ereditario e pertanto non è possibile identificarne il luogo d’origine in Egitto né fissarne precisamente la cronologia, sebbene, come vedremo, l’uso di imbalsamare animali, presente solo in Epoca Tarda, possa favorire una datazione a questo periodo.
Ma perché gli Egizi praticavano la mummificazione, e perché mummificavano anche i loro animali?
La mummificazione, venne adottata dagli Egizi quale sistema ordinario di sepoltura al fine di consentire la sopravvivenza dei corpi nell’aldilà. Essi infatti credevano che la conservazione del corpo avrebbe assicurato al Ka – l’anima o l’essenza spirituale del defunto- di utilizzarlo quale veicolo in cui incarnarsi. La mummia quindi, così come la statua, non era un semplice tributo alla memoria, ma la sua funzione precipua era quella di servire da base per un’altra vita, quella del Ka, che in essa si incarnava. Senza alcun supporto fisico infatti, l’anima- sotto aspetto di Ka, Ba (la “manifestazione animata del defunto”) o Ash (il generico principio di immortalità) – non potendosi incarnare, si sarebbe perduta in una eternità di supplizi.
La conservazione del corpo materiale era di primaria importanza, e ciò spinse gli Egizi a sviluppare raffinate tecniche di conservazione dei corpi.
I materiali e le tecniche utilizzate, pur variando nel tempo, rimasero costanti nei principi base che prevedevano l’eviscerazione del cadavere (lavato con vino di palma e asciugato con panni di lino) e la sua essiccazione mediante immersione in un composto di sali (natron), per consentire la disidratazione dei tessuti grassi e con funzione battericida, per una durata tradizionalmente fissata sui 40 giorni. Seguiva una fase di circa 30 giorni in cui, raggiunta la completa disidratazione, il corpo veniva ricoperto di resine e di oli sacri, incensato ed infine avvolto in bende di lino secondo un procedimento altamente complesso. La mummia veniva poi deposta nel sarcofago e collocata nella tomba, ove erano deposti gli oggetti indispensabili alla vita quotidiana e dipinte scene della vita di tutti i giorni, in maniera da garantire una inesauribile fonte di approvvigionamento al defunto nel caso malaugurato in cui le offerte, che i vivi erano tenuti a recare ai morti, fossero state interrotte per un qualunque motivo.
Non erano però solamente gli umani ad essere sottoposti a questo procedimento: i musei di varie città del mondo sono pieni di mummie delle specie più diverse, compresi bovini, babbuini, arieti, leoni, gatti, cani, iene, pesci, pipistrelli, gufi, gazzelle, capre, coccodrilli, toporagni, coleotteri scarabei, ibis, falchi, serpenti, lucertole e molti tipi di uccelli: è perciò probabile che gli Egizi credessero che anche gli animali, come gli umani, possedevano un Ka, e forse anche un Ba e un Akh. Il procedimento era simile a quello seguito per gli esseri umani: eviscerazione, essiccamento sotto natron, lavaggio, accurata fasciatura e deposizione nel sarcofago. Le indagini archeologiche hanno riportato alla luce interi cimiteri riservati agli animali, come la necropoli di Saqqara, dove sono state identificate, all’interno di una catacomba particolarmente estesa, ben otto milioni di mummie di cani, o quella di Tuna el-Gebel, che ha restituito circa quattro milioni di mummie di ibis. Le mummie animali giunte fino a noi possono essere suddivise in diverse tipologie. Un gruppo importante è costituito dagli animali domestici, cani, gatti ma anche manguste, scimmie, gazzelle e uccelli. Questi animali venivano spesso mummificati e sepolti con i loro proprietari, o fuori della loro tomba, nel caso in cui la loro morte precedeva quella dell’individuo cui essi appartenevano, in attesa di accompagnarli anche nell’aldilà: l’esempio quasi commovente di un uomo chiamato Hapymin, sepolto nel periodo compreso tra l’epoca tarda e la XXX dinastia con il suo cane raggomitolato ai piedi, può fornire forse la prova migliore del forte sentimento che gli Egizi nutrivano per i loro animali.
Un’altra tipologia è costituita dalle mummie di animali considerati sacri, come ipostasi delle divinità: ad esempio il toro Api a Menfi o l’ariete Banebged a Mendes erano oggetto di venerazione dalle età più antiche, scelti dai sacerdoti secondo precisi criteri (ad esempio una macchia sulla pezzatura) e adorati e accuditi come fossero il dio stesso. Alla loro morte, venivano imbalsamati e solennemente sepolti in una catacomba, mentre il loro principio divino migrava in un altro esemplare dalle caratteristiche simili.
La categoria di mummie animali più numerosa, e più frequente nelle collezioni dei musei di tutto il mondo, è quella delle offerte votive: in questo caso, la mummia di uno specifico animale veniva dedicata alla divinità corrispondente (ogni dio aveva un animale specifico che era il suo totem o simbolo, ad esempio il gatto era sacro a Bastet, dea del piacere, dell’amore e della bellezza, gli Ibis a Thot, dio della conoscenza), in modo tale che la preghiera dedicata al dio dal pellegrino, e rappresentata dall’animale imbalsamato, potesse essergli indirizzata e rivolta per l’eternità. Le mummie venivano offerte e conservate nel tempio fino alla festa annuale o semestrale del dio, dopodiché venivano sepolte in apposite, enormi, catacombe.
Mummia di serpente con sarcofago. Sul coperchio è rappresentato il serpente in rilievo (fonte)
Questi animali venivano allevati in prossimità dei santuari e poi deliberatamente uccisi per essere imbalsamati e venduti ai pellegrini. Con il tempo, si creò un vero e proprio sistema economico ruotante intorno a questi santuari, che accoglievano officine destinate alla produzione, alla imbalsamazione e alla vendita di mummie, e non mancano prove dell’esistenza di edifici destinati alla cova delle uova di coccodrillo (a Medinet Mari) o di uccelli.
Del resto, le mummie erano parte integrante dell’economia di questi santuari: migliaia di animali dovevano essere allevati e accuditi a spese del tempio, su cui ricadevano anche i costi di mantenimento dei sacerdoti addetti al culto, della manodopera specializzata e dei materiali necessari per l’imbalsamazione, provenienti da diverse parti dell’Egitto o dall’estero (ad esempio le resine, incluso l’incenso e la mirra, venivano importate dalla Siria o dall’Etiopia). Fu probabilmente per far fronte alla richiesta sempre crescente che cominciarono ad essere prodotti esemplari di scarsa qualità, tanto più che questa dipendeva anche dalle disponibilità economiche dell’acquirente, e che si misero in atto delle pratiche probabilmente fraudolente: le indagini diagnostiche cui sono state sottoposte alcune mummie hanno infatti rivelato che queste erano dei “falsi”, cioè erano state bendate per dare l’idea di un animale specifico, ma di fatto contenevano i resti di un animale diverso, le ossa di più esemplari o addirittura solamente sabbia, grumi di fango, bende e materiale di vario genere. Bisogna però tenere conto anche della precipua mentalità egizia per la quale la parte (pochi resti ossei o solo le piume) vale il tutto (l’intero animale) nonché il budget del pellegrino, che qualora molto basso, non consentiva l’acquisto di esemplari “autentici”.
L’ultima categoria di mummie animali è costituita dalle mummie cosiddette “alimentari”, ovvero da cibi mummificati come costolette di manzo, anatre e oche, collocate nella tomba affinché il defunto se ne potesse nutrire. La carne e il pollame venivano preparati come se fossero pronti per essere cucinati: la carne veniva scuoiata e spezzettata, il pollame spennato ed eviscerato, e nella maggior parte dei casi, venivano rimosse la testa, le ali e le zampe. Dopo l’essiccazione, il fegato e la varie frattaglie venivano reinserite all’interno del corpo tramite delle cavità opportunamente create. Alcune di queste mummie presentano una colorazione marrone, come se fosse stato dato loro intenzionalmente l’aspetto di una cosa appena arrostita, con l’applicazione di resine calde che ovviamente brunivano le bende.
La pratica della mummificazione di animali è attestata durante l’intero arco della storia egizia, ma è soprattutto durante l’Epoca Tarda e nei Periodi Tolemaico e Romano che si diffonde con enorme successo la pratica delle mummie votive, probabilmente quale reazione alla minaccia straniera che spinse gli Egizi a cercare nuovi modi con cui affermare il proprio senso di identità e ribadire la propria cultura e le proprie tradizioni religiose. Il fenomeno perdurò circa fino al 350 d.C., quando venne interrotto dal trionfo del cristianesimo.
Torna anche quest’anno la campagna Maggio dei Libri, promossa dal Centro per i Libri e la Lettura e sostenuta dal Mibact con l’ashtag #lartechelegge, che contraddistinguerà la campagna social di questo mese. I visitatori dei musei italiani potranno divertirsi alla ricerca di libri, papiri, scritture raffigurati in sculture, vasi e affreschi delle epoche e delle collezioni più disparate, per condividerli poi sui social. Noi intanto cominciamo, se non proprio dall’inizio, almeno da mooolto tempo fa!
La scrittura dell’antico Egitto è uno degli aspetti che più affascina e intriga fin da bambini: chi non ha mai sentito parlare di geroglifici, di cartigli, della stele di Rosetta e della storia della sua decifrazione?
I geroglifici dipinti nel XIX secolo come decorazione nella sala III del museo. Vi si possono leggere i nomi di Umberto e Margherita di Savoia.
I geroglifici costituiscono un sistema estremamente complesso di scrittura; ad essi si accompagnavano altri due sistemi, lo ieratico (dal greco hierós, sacro) e il demotico (dal greco démos, popolo), il primo utilizzato dai sacerdoti come sistema semplificato di scrittura e il secondo, da esso derivato, impiegato per le esigenze della vita quotidiana soltanto dal VII sec. a.C. Mentre il geroglifico si serve di disegni stilizzati (a cui può corrispondere un oggetto -pittogrammi-, un concetto -ideogrammi- o semplicemente un suono), gli altri due sistemi impiegano segni più corsivi e più veloci da tracciare.
Papiro con scrittura geroglifica (a sinistra) e ieratica (a destra)
Proprio per questa sua complessità, la scrittura era appannaggio di pochi eletti: il faraone, certamente, pochi nobili appartenenti alla sua corte e, soprattutto, gli scribi. Il loro percorso di studi iniziava fin da bambini e, perché acquisissero al meglio la capacità di scrivere, richiedeva molti anni: l’alfabeto infatti, che all’inizio contava circa settecento segni, vide aumentarli a dismisura nel corso dei secoli, fino a oltre cinquemila.
La pianta di papiro coltivata nel giardino del MAF
Ma quali erano i “libri” degli antichi Egizi? I papiri, naturalmente. I fogli di papiro erano ottenuti lavorando la parte interna del fusto della pianta, che cresceva lungo le sponde del Nilo. Le strisce sottili che se ne ricavavano venivano giustapposte in più strati, con le fibre disposte in senso orizzontale o verticale, alternate; gli strati aderivano poi l’uno all’altro grazie alla loro stessa secrezione e venivano infine battuti e pressati; i lunghi rettangoli così ottenuti erano poi conservati arrotolati su se stessi. Si scriveva utilizzando lo stilo, una sottile bacchettina di legno che veniva spesso mordicchiata ad una estremità per renderla più flessibile e precisa; l’inchiostro utilizzato era di due colori: rosso, ottenuto con la polvere di minio o di cinabro, e nero, ottenuto con la fuliggine. A restituirci queste preziose informazioni sono i corredi di scribi che sono giunti fino a noi, che comprendevano le boccettine per la conservazione dell’inchiostro (dei veri e propri calamai) e le tavolette per riporre lo stilo e preparare il colore, come quelle conservate al museo.
Il corredo dello scriba
I papiri non erano però l’unico supporto per la scrittura: oltre alle stele, incise e sovradipinte, per gli “appunti volanti” venivano utilizzati anche i cocci dei vasi rotti (óstraka in greco) o schegge di pietra avanzate dall’opera degli scultori: un comodo supporto usa e getta di nessun valore, che consentiva di non sprecare i preziosi fogli di papiro. Quelli conservati nel nostro museo riportano appunti, ma anche numeri e conteggi:
Óstraka (in basso a sinistra i conteggi)
Gli scribi sono spesso rappresentati nelle sculture e nei rilievi egizi, quasi sempre sono seduti a gambe incrociate, la posizione che li contraddistingueva e che consentiva loro di appoggiare sulle gambe la tavoletta necessaria per sostenere il foglio su cui scrivevano.
Il rilievo degli scribi
C’è però al MAF un rilievo molto famoso di epoca amarniana, noto appunto come rilievo degli scribi, che ci restituisce una scena molto vivida e articolata: su piani diversi sono rappresentati quattro scribi, intenti a fissare nella stessa direzione, con in mano la tavoletta e lo stilo, pronti a trascrivere tutto ciò che stanno ascoltando, come dei moderni giornalisti. La caratteristica di questo rilievo è la grande naturalezza con cui sono rese le figure e il rispetto della profondità della scena in contrapposizione alla consueta piattezza e schematicità, elementi che caratterizzano l’arte egizia soltanto nell’epoca della XVIII dinastia (quella di Tutankhamon), chiamata amarniana dalla città di El Amarna, in quel tempo capitale del regno. Il rilievo, del quale il MAF possiede solo un frammento, si completa con il pezzo oggi conservato al museo di Leiden, nel quale è ritratto il faraone che detta la legge.
La campagna social del Mibact per il mese di marzo è dedicata alle creature fantastiche. Il nostro museo è per sua stessa natura un meraviglioso bestiario di mostri, demoni, creature ibride e magiche che, se certo non spaventano più come un tempo, non cessano comunque di esercitare il loro potente fascino sui visitatori grandi e piccini.
Le sale in cui forse la fantasia dei curiosi trova maggiore soddisfazione sono quelle del Museo Egizio, che ci restituiscono nei vividi colori originali le immagini delle numerosissime divinità che “popolavano” le sponde del Nilo.
Nell’antico Egitto la divinità mantiene sempre una importante componente zoomorfa: ogni dio viene indifferentemente raffigurato in forma umana (se ne ha una), animale o con il corpo umano e la testa animale. È così per Horus, il dio-falco figlio di Osiride, o per Hathor, la dea-vacca che incontriamo sotto forma di animale e in forma umana, ma con le corna di vacca (tra le quali è inserito il disco solare) nel rilievo di Seti I. Hathor era la dea-madre, dea dell’amore e aveva il compito di scortare il faraone nell’Aldilà.
La dea Hathor in forma umana, a sinistra, e in forma di vacca, a destra
La scultura in granito rosa che rappresenta la dea proviene dall’Iseo del campo Marzio a Roma, dove fu portata come bottino; accucciato tra le zampe dell’animale è il faraone Horemheb (1319-1291 a.C.), identificato da una iscrizione, intento a bere il latte dalle sue mammelle. Il latte aveva per gli antichi Egizi un importante significato rituale, legato alla purificazione e alla resurrezione.
Toth, invece, il dio inventore della scrittura, ha addirittura due forme animali, di babbuino e di ibis. Toth lo troviamo nei frammenti di papiro che ci restituiscono una parte ben nota del libro dei morti, quella relativa all’ingresso del defunto nell’Aldilà e alla cerimonia della pesatura del cuore. Il libro dei morti era un testo sacro nell’antico Egitto in cui erano raccolte preghiere e il racconto di tutti i passaggi che l’anima doveva affrontare per arrivare nel Regno dei Morti, compreso quello della pesatura: il cuore del defunto (che rimaneva nel corpo mummificato, a differenza degli altri organi che venivano rimossi) veniva messo sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro era posta la piuma attributo della dea Maat, divinità dell’ordine, della verità e della giustizia.
Scena della pesatura del cuore: da sinistra Thot, con testa di Ibis, è il giudice e scrive; Ammit, di cui si vede solo la testa di coccodrillo, è pronta a divorare il cuore impuro; Anubi, con testa di sciacallo, ha il ruolo di accompagnare il defunto; sulla bilancia è di nuovo rappresentato Toth, questa volta in forma di babbuino; alla scena è presente anche Horus, con testa di falco.
Solo se la bilancia fosse rimasta in equilibrio il cuore sarebbe stato puro e avrebbe permesso di accedere alla vita eterna; in caso contrario il cuore sarebbe stato divorato da Ammit, un mostro femmina chiamato anche “la divoratrice“, che si trova sempre rappresentato in questa scena: una creatura con testa di coccodrillo, parte anteriore del corpo di leone e parte posteriore di ippopotamo.
Un’altra creatura fantastica, la cui benevola presenza aleggia nelle ultime sale del Museo Egizio, è Bes: un nano grottesco dalle fattezze mostruose, con gli occhi sporgenti e la lingua fuori tra i riccioli di una folta barba.
Bes è un demone protettore della casa e che sovrintende alla nascita dei bambini: il suo aspetto minaccioso e le sue smorfie hanno la funzione di allontanare gli spiriti maligni. La scultura conservata al museo, datata al periodo tolemaico, in origine era probabilmente il capitello di una colonna.
E voi, quali altre #creaturefantastiche avete trovato?
Capita talvolta, aggirandosi tra le opere esposte in un museo, di cogliere qualche sguardo particolarmente intenso, diretto, che sembra uscire dalle tele o dalla pietra per venire ad incontrare proprio i nostri occhi. Sguardi che escono dal tempo e ci ricordano che i volti fissi e ingessati che ammiriamo sono stati persone, hanno pensato e agito proprio come noi. A questo fa pensare l’ashtag scelto dal Mibact per inaugurare il 2017 sui social,#lartetisomiglia, una campagna di comunicazione valida su instagram per tutto il mese di gennaio. Uno slogan che vuole avvicinare il pubblico alle opere e che invita a guardarle con occhi nuovi e partecipi. Il nostro contributo come blog sarà un approfondimento su alcuni ritratti particolarmente espressivi conservati nel nostro museo, due vividi volti di donna che hanno attraversato i secoli per giungere intatti fino a noi.
Il ritratto del Fayyum del MAF, IV sec. d.C. (foto Archivio Fotografico Museo Archeologico Nazionale di Firenze)
Il primo appartiene a una nobildonna ritratta su una tavoletta di legno, proveniente dall’Egitto di epoca romana. Si tratta di uno dei ritratti provenienti dall’oasi del Fayyum, che ha restituito moltissime di queste tavole; a partire dal I sec. d.C. si diffuse infatti l’usanza di apporle sopra le bende, in corrispondenza del volto delle mummie, in sostituzione delle più stilizzate maschere tridimensionali; i ritratti erano eseguiti subito dopo la morte, e ritraggono quindi i soggetti in diverse età (e, data la netta prevalenza di giovani, si deduce un’età media della popolazione piuttosto bassa). Questi ritratti sono così fedeli alla realtà che in alcuni casi è stato possibile persino ricostruire i rapporti genealogici di intere famiglie basandosi sulle somiglianze, anche quando non è accertata la provenienza da una medesima tomba. L’abbondanza di dettagli permette di capire che queste persone vestivano e vivevano secondo la moda diffusa a Roma nei primi secoli dell’impero e consente, tramite il raffronto con i realia, una datazione molto precisa. I ritratti del Fayyum si datano fra il I è il IV sec. d.C.; alcuni sono di qualità molto elevata. I pittori operavano probabilmente con dei tipi base già pronti, cui apportavano le modifiche necessarie per rendere reale la somiglianza con i defunti.
Le persone ritratte, considerate come “Egizi” dai Romani, erano in realtà discendenti dei coloni greci di epoca tolemaica, e probabilmente consideravano se stessi greci, come indica la ricorrente presenza della barba negli uomini, una moda ellenica che nella Roma imperiale si afferma soltanto a partire dall’imperatore Adriano, nel II sec. d.C.
Il ritratto di Firenze è stato uno dei primi dell’Oasi a giungere in Europa, portato assieme agli altri reperti recuperati nella spedizione franco-toscana del 1828-29. È realizzato a tempera, ovvero con colori ottenuti da pigmenti naturali uniti a colla di origine animale e sciolti in acqua; i pennelli utilizzati erano molto fini e permettevano di dipingere il chiaroscuro con linee sottili ravvicinate e contorni nitidi.
Il ritratto prima del riallestimento 2015: la tavoletta è “incorniciata” da bende di lino, così come doveva apparire nella sua collocazione originaria sulla mummia, in corrispondenza del volto della defunta (foto Archivio Fotografico Museo Archeologico Nazionale Firenze)
La donna è acconciata come una matrona romana dell’epoca, con i capelli, crespi, raccolti in una piccola crocchia alla sommità della testa; indossa orecchini di perle e una collana d’oro impreziosita da pietre blu scuro. L’abbigliamento consiste in un mantello chiaro e una tunica rosata su cui sono visibili i clavii, delle strisce scure usate come decorazione.
Prossimamente la seconda parte, dedicata all’altra “matrona del MAF”… continuate a seguirci!
Esattamente duecento anni fa iniziava in questo giorno l’avventura archeologica di un appassionato viaggiatore, esperto di idraulica e studioso di arte antica: Giovan Battista Belzoni, ex monaco, commerciante di oggetti sacri, fenomeno da baraccone nei teatri inglesi e massone.
In Egitto era arrivato la prima volta in cerca di fortuna vendendo le sue competenze idrauliche per un nuovo programma agricolo; al Cairo conobbe la maestosità dell’arte egizia e ne rimase profondamente affascinato. Riuscì ad aggiudicarsi il lavoro di spostamento del grande busto di Ramesse II da Luxor alle acque del Nilo, dove avrebbe potuto essere imbarcato alla volta dell’Inghilterra con destinazione il British Museum. L’impresa di spostamento si concluse in soli quindici giorni, al termine dei quali Belzoni si avventurò più a sud in esplorazione delle rovine archeologiche, e compì scavi a Karnak e nella Valle dei Re.
Tornato al Cairo al termine del 1816 preparò subito un secondo viaggio per l’anno successivo. Il 18 ottobre 1817 scoprì la tomba di Seti I (1289-1279 a.C.), il padre di Ramesse II, decorata da splendidi rilievi policromi: di essi Belzoni fece realizzare tutti i calchi grafici con l’intenzione di realizzare in Inghilterra una ricostruzione della tomba. Quando però la tomba fu visitata nuovamente da una spedizione archeologica, quella guidata da Champollion e Rosellini, si decise per la brutale asportazione dei rilievi, parte dei quali sono oggi conservati al Louvre e al MAF.
Il pilastro della tomba d Seti I: la parte a sinistra è esposta al Museo Egizio di Firenze, quella a destra è invece al Louvre
Nel rilievo è raffigurata Hathor, dea madre e dell’amore, in atto di accogliere il defunto Seti; la dea, con gli attributi che la caratterizzano, il disco solare e le corna bovine, stringe la mano del faraone e gli porge una collana. Nella rappresentazione si possono notare i dettagli dell’abbigliamento del tempo, con i monili e gli abiti tessuti di stoffe leggere e trasparenti, così come le ampie parrucche che indossavano sia gli uomini che le donne.
Nel 1818 ripartì per un terzo viaggio in Egitto, accompagnato dal medico e disegnatore Alessandro Ricci, lo stesso che dieci anni dopo si accoderà al seguito di Rosellini e Champollion. Continuò poi a esplorare l’Africa e vi trovò la morte nel 1823, dopo essere stato accolto trionfalmente in Europa per le sue scoperte.
Infine, una curiosità. Per quanto forse non troppo nota, la figura di Belzoni è più legata di quanto si possa pensare all’archeologia così come l’immaginario comune ce la rappresenta: fu proprio l’avventuriero padovano, infatti, ad ispirare il regista e produttore G. Lucas per uno dei suoi più celebri personaggi…