La testa Lorenzini approda al MAF

La Testa Lorenzini, uno dei capolavori della scultura etrusca, probabilmente parte di una grande statua di culto del dio Aplu (Apollo) che si ergeva in un tempio dell’antica Velathri (Volterra), è stata acquistata dalla Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio del Ministero per i beni e le attività culturali su proposta della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e per le province di Pistoia e Prato e sarà presentata mercoledì 5 giugno 2019 alle 17.00 nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze, al quale è stata destinata dal Ministero e dove sarà stabilmente esposta al pubblico.

Alla presentazione parteciperanno il Direttore generale Musei Antonio Lampis, il Direttore generale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio Gino Famiglietti, il Direttore del Polo museale della Toscana Stefano Casciu, il Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze e per le province di Pistoia e Prato Andrea Pessina, e il Direttore del Museo Archeologico Nazionale di Firenze Mario Iozzo.

Fino al 1997 la celebre scultura, già di proprietà della famiglia Lorenzini, da cui il nome con il quale è conosciuta, era stata data in prestito dai proprietari ed esposta nel Museo Etrusco Guarnacci di Volterra. Successivamente ritirata dai proprietari, e messa in vendita nel 2019, è stata oggetto dell’esercizio del diritto di prelazione da parte del Mibac, che, come previsto dal Codice dei beni Culturali e del Paesaggio (DLgs 42/04), ha manifestato il proprio interesse ad quistare il bene che stava per essere alienato per € 355.000. Grazie a questo acquisto da oggi il pubblico, dopo 22 anni nei quali la Testa Lorenzini è rimasta non più visibile, potrà nuovamente ammirare questo capolavoro, presente in tutti i manuali di etruscologia e arte antica, presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze, il più grande e importante museo archeologico d’Italia a nord di Roma.

La straordinaria scultura, databile intorno al 480 a.C., definita da Ranuccio Bianchi Bandinelli “la più greca delle opere etrusche”, è il più antico esempio noto nell’Etruria centro-settentrionale di una figura scolpita nel marmo delle Alpi Apuane (il marmor lunensis dei Romani, oggi di Carrara). Riveste inoltre una notevole importanza perché come statua di culto divenne presto fonte di ispirazione per una serie di statuette in bronzo diffuse in tutto il territorio volterrano e certamente adoperate per i culti domestici. Opera di un abile scultore etrusco il cui stile rivela forti influssi greco-orientali (nella massiccia volumetria, nei grandi occhi a mandorla, negli zigomi alti e prominenti), la scultura mostra anche caratteristiche tipiche dell’arte etrusca, come la fronte bombata, la complessa acconciatura dei capelli che rigonfiano il profilo della calotta cranica e la resa a rilievo delle arcate sopraciliari. Gli occhi, realizzati probabilmente in pasta vitrea e in altri materiali semipreziosi da inserire nelle orbite vuote, derivano dalla tecnica delle statue in bronzo.

La Testa Lorenzini sarà collocata nel Museo Archeologico Nazionale di Firenze accanto ad altre opere di primaria importanza per la conoscenza della civiltà e dell’arte etrusche, come la Mater Matuta, il cinerario di un defunto accompagnato dalla divinità infernale Vanth e il grande coperchio di sarcofago detto dell’Obesus etruscus, andando così a integrare la collezione delle sculture etrusche del museo fiorentino con un contributo di grandissimo valore.

Cinerario di Chianciano
Mater Matuta

Profumi del mondo antico

Gli uomini possono chiudere gli occhi davanti alla grandezza, davanti all’orrore, e turarsi le orecchie davanti a melodie o a parole seducenti. Ma non possono sottrarsi al profumo. Poiché il profumo è fratello del respiro. Con esso penetrava gli uomini, a esso non potevano resistere, se volevano vivere.

P. Süskind, Das Parfum

Askos a forma di paperella, con raffigurata una figura alata che regge nella sinistra un alabastron, vasetto per unguenti e profumi, e nella destra il tappo con la bacchettina che serviva per attingere il prezioso contenuto-

Jean-Baptiste Grenuille, ambiguo protagonista de Il Profumo di Süskind, con poche calibrate frasi ci dimostra come gli odori facciano parte del nostro vivere più intensamente di quanto noi stessi spesso non ci accorgiamo. Anche i greci se ne resero conto presto, visto che le prime testimonianze dell’arte profumiera risalgono all’età del Bronzo. Intorno al IV-III sec. a.C. l’arte profumiera è talmente sviluppata da richiedere un articolato linguaggio tecnico, ed è proprio a questo periodo che risale il primo trattato scientifico sui profumi, intitolato “Sugli odori”. L’autore, Teofrasto di Ereso, allievo di Platone prima e di Aristotele poi, continuò la ricerca dei due grandi filosofi, innovandola profondamente. Non si limitò a catalogare i diversi tipi di odori, ma analizzò il mondo delle piante aromatiche, e soprattutto i procedimenti che portavano dal trattamento delle sostanze odorose alla creazione di veri e propri profumi, lasciandoci dunque un manuale di profumeria antica.

Aryballoi etrusco corinzi (di produzione etrusca ad imitazione di quelli fatti a Corinto, a sinistra) e corinzi, a destra. VII sec. a.C.

Prima di essere mero strumento di bellezza effimera – “un lusso che tra tutti è il più vano” lo chiama Plinio il Vecchio (NH XIII,4), sottolineando come il profumo, a differenza dei gioielli, sparisce senza lasciare traccia, oltretutto senza essere percepito da chi lo portava, che lo indossava quindi solo per il piacere altrui – il profumo era un potente strumento di collegamento col mondo divino: veniva bruciato come offerta nelle cerimonie religiose e i suoi fumi salivano fino alle divinità e con esso si ungevano i corpi dei defunti da consegnare all’Oltretomba. Dalla cura del corpo dei morti passa infine a quello dei vivi, sancendo il passaggio dal mondo del sacro al profano. Passaggio non indolore, segnato anche dal veto di personalità del calibro di Socrate, che sottolineavano il potere illusorio del profumo al servizio di un mondo di vanità.

Allora come oggi i profumi avevano un costo elevatissimo, dovuto soprattutto alla rarità delle materie prime necessarie alla lavorazione. Come si faceva un profumo? In generale usando una sostanza odorosa di origine vegetale o animale che veniva macerata a caldo o a freddo in una sostanza grassa – la più utilizzata, perché garantiva la maggiore conservazione, era l’olio inodore – e talvolta colorato con l’aggiunta di un altro ingrediente.

In Grecia si usavano soprattutto piante aromatiche e fiori fissati in olio d’oliva: iris, rose, gigli.

Nel giardino nel MAF ogni primavera si respirano i profumi dell’antica Grecia!

Anche allora c’erano profumi di tendenza, alla moda, e altri quasi legati a un marchio, per così dire DOC, prodotti esclusivamente in alcune località come il Panathenaicum di Atene. Il packaging era ricercato e prezioso: vasetti di moltissime forme diverse, anche piccoli animaletti o testine umane, di ceramica, ma anche in vetro, piombo o alabastro, riccamente decorati preservavano gli oli profumati da luce e calore. Il design era elegante , ma allo stesso tempo estremamente funzionale. Il contenitore infatti era sempre di dimensioni ridotte (non si poteva certo vendere un prodotto di lusso in flaconi enormi) e con un’imboccatura molto stretta per permettere di versarne poche gocce alla volta. Con l’aryballos di Corinto si raggiunse il massimo tecnologico. Intorno all’apertura del vaso venne posto un caratteristico dischetto concavo, un salvagoccia per così dire, che permetteva di raccogliere e conservare di nuovo, il profumo versato in eccesso.

Aryballoi configurati: a figura umana e a forma di paperelle

Non mancavano certo le contraffazioni e le scorrettezze. Talvolta le sostanze alla base del profumo erano di scadente qualità o deperivano prima di quelle fatte con l’ingrediente più costoso, ma venivano vendute esattamente allo stesso prezzo. I profumieri non lasciavano uscire un cliente indeciso dalla loro bottega senza prima fargli provare il rhodinon, un profumo a base di rosa talmente penetrante da impedire poi la percezione di altri profumi. In questo modo il cliente perduto non avrebbe potuto acquistare niente neanche dalle botteghe concorrenti.

 

Giano, gennaio e le porte del MAF

Sapete da dove viene il nome del primo mese dell’anno? Ianuarius, gennaio, era per i romani il mese dedicato a una delle loro più antiche divinità, Ianus (Giano), il dio bifronte, protettore degli inizi e dei passaggi, un antico dio squisitamente latino che avrebbe portato le leggi tra i popoli primitivi del Lazio, che nelle preghiere era sempre invocato al primo posto e le porte del cui tempio si aprivano solo quando iniziava un periodo di guerra.  La sua residenza, ovviamente, era immaginata proprio sul colle che da lui prende il nome, il Gianicolo. Il dio era rappresentato con due volti che guardavano in direzioni opposte: come una porta, segnava un passaggio, contemporaneamente l’inizio e la fine, l’interno e l’esterno, l’entrata e l’uscita.

Il mese Ianuarius con la rappresentazione di Giano in una incisione del XVII secolo conservata al British Museum (fonte)

Il nome di Giano è intimamente connesso anche al termine che i Romani usavano per indicare la porta, ianua. Per questo vogliamo celebrare l’inizio del 2019 proprio come avrebbero fatto nell’antichità, onorando Giano e tutti i passaggi del Museo, siano essi reali o immaginari, custoditi in una vetrina o “a portata di piedi” per tutti i nostri visitatori.

Non è scontato notare, infatti, visitando le sale del primo piano del Museo, che le porte che introducono da una sala in un’altra non sono porte qualunque: mentre nella sezione egizia richiamano le porte dei templi sul Nilo, sormontate dal disco solare alato, nel settore etrusco sono decorate con cornici analoghe a quelle delle porte delle tombe etrusche, con il caratteristico “becco di civetta”. Un’indulgenza al gusto dominante a fine Ottocento, quando il museo fu per la prima volta collocato nel Palazzo della Crocetta, e grande potere evocativo era affidato all’allestimento degli ambienti come fossero una vera e propria scenografia, in stile con i reperti che contenevano.

Una porta della sezione etrusca, a sinistra, e una della sezione egizia, a destra

Porte di ben altra natura sono invece quelle che si trovano riprodotte sulle urne cinerarie etrusche: talvolta un portoncino isolato sulla fronte della cassa, talaltra un battente dischiuso alle spalle di un triclinio. Se non bastasse l’oggetto in sé, le figure di demoni alati che spesso fanno la guardia a questi passaggi ne tradiscono la natura ultraterrena: sono le porte della tomba e contemporaneamente la porta degli Inferi, sulla cui soglia i defunti danno l’estremo addio ai loro cari.

Nella sala IX del Museo, addirittura, una vera porta di pietra di una tomba sembra voler aprire un varco nella parete, con i suoi cardini e il suo battente, esempio piuttosto raro rispetto ai più comuni lastroni di pietra appena sgrossati. La porta segnava l’ingresso di una tomba di Chiusi, e risale al V o IV sec. a.C.

Le porte che simboleggiano l’ingresso nell’Aldilà, il regno di Osiride, sono consuete anche nella rappresentazione delle stele egizie, dove spesso fanno da cornice alle iscrizioni, come nella stele di Khentekhtayaun, in cui sono elencati i nomi di tutti i parenti del defunto (con specificato di quale grado di parentela si tratta) autori della dedica e della preghiera incisa in caratteri geroglifici.

La stele funeraria del maggiordomo Khentekhtayaun

Le vivide immagini che ci restituisce la ceramica attica, invece, raccontano la vita di tutti i giorni nell’antica Grecia. Qui troviamo le porte delle mura urbiche e le porte delle case, con i battenti e le borchie, così sorprendentemente simili alle nostre anche se si tratta della dimora divina di Peleo e Teti. Avreste mai detto, per esempio, che anche la porta di casa di una dea potesse avere la gattaiola? Tra i tanti minuziosi dettagli usciti dal calamo di Kleitias, il pittore del vaso François, c’è anche la piccola apertura che spesso in Grecia veniva lasciata nella porta di casa, per consentire il passaggio a ricci o piccoli animali selvatici ma utili all’uomo perché liberavano le case dai topi.

La porta della casa di Peleo e teti, a sinistra, con la gattaiola, e la porta delle mura di Troia da cui escono i soldati, con i proiettili pronti ad essere lanciati ammassati tra i merli (Vaso François).

Allora, non vi abbiamo invogliato a iniziare il 2019 varcando ancora una volta la soglia (anzi le soglie!) del MAF? Buon anno a tutti!

 

Le gemme e il corridoio di Maria Maddalena: un nuovo percorso al MAF

Oggi, 14 dicembre inaugura al MAF il nuovo allestimento di una scelta di 432 pezzi (cammei e intagli) provenienti dalla collezione glittica del museo, nella splendida cornice del Corridoio Mediceo. Le collezioni del MAF vantano la più ampia raccolta al mondo tra gemme, sigilli, cammei, intagli, paste vitree, gemme magiche e anelli (solo quele appartenute ai Medici e ai Lorena, da cui è tratta la selezione esposta, ammontano a 2300 esemplari), alcuni dei quali impreziositi da montature in oro di epoca romana o rinascimentale e cornici in pietre preziose e smalti (un trattamento rarissimo per i gioielli non destinati all’ambito ecclesiastico); i materiali sono sardonici, corniole, zaffiri, rubini, calcedoni e granati. L’arco cronologico ricoperto va dal 2300 a.C. (gemme babilonesi) fino al diciottesimo secolo, in una storia collezionistica che inizia con Lorenzo il Magnifico e continua fino a Pietro Leopoldo, passando per il duca Cosimo I, la moglie Eleonora di Toledo e l’Elettrice Palatina. Le gemme del MAF sono state esposte al pubblico soltanto nel 1990, in una ristrettissima selezione, in occasione della mostra “Le gemme dei Medici e dei Lorena nel Museo Archeologico di Firenze”.

Alcune delle gemme che saranno esposte nel Corridoio Mediceo

Le 34 vetrine del nuovo allestimento si susseguono lungo tutto il percorso del Corridoio Mediceo costruito nel 1620 dall’architetto Giulio Parigi, oggi racchiuso all’interno delle strutture del Museo, ma che in origine serviva da collegamento tra il Palazzo della Crocetta e la basilica della SS. Annunziata.

La facciata del corridoio che in origine si apriva sul giardino, oggi racchiusa all’interno del Museo

La storia del palazzo e dei suoi frequentatori sarà parte integrante della nuova sistemazione, che prevede nella stanza di accesso al corridoio una serie di pannelli retroilluminati e schermi touch che consentono l’approfondimento dei materiali esposti (con didascalie, ingrandimenti e dettagli gemma per gemma) e della storia della famiglia Medici, con un grande ritratto di Maria Maddalena. Alla fine del corridoio i visitatori saranno accolti da un altro allestimento multimediale, con un video in soggettiva del percorso attraverso il corridoio e fino all’affaccio all’interno della chiesa, il luogo di raccoglimento da cui Maria Maddalena assisteva alla messa, e ancora gli approfondimenti sui singoli pezzi esposti, tutto in doppia lingua italiano-inglese.

L’allestimento dei nuovi spazi espositivi è stato possibile grazie al contributo di Friends of Florence. La presentazione e l’inaugurazione sono in concomitanza  con l’inaugurazione della nuova illuminazione permanente di Piazza SS. Annunziata, organizzata per le 17,15-17,30, al momento dell’accensione dell’illuminazione pubblica.

Lo scorcio della piazza SS. Annunziata come si vede dal corridoio, nel tratto in cui attraversa via Gino Capponi.

Vi aspettiamo!

 

Dal palazzo alla basilica: il camminamento nascosto di una sfortunata principessa Medici

Tra le diverse caratteristiche di un museo, un elemento che spesso viene sottovalutato è l’edificio che lo ospita. Le ricchissime collezioni del Muso archeologico di Firenze vantano invece un “contenitore” di eccezione: il Palazzo della Crocetta, progettato dall’architetto Giulio Parigi ed edificato nel 1620.

Si tratta, come moltissimi altri palazzi della città, di una residenza della famiglia dei Medici, destinata però ad un membro particolare della famiglia, la principessa Maria Maddalena, ottava figlia di Ferdinando I e Cristina di Lorena, sorella dunque del granduca Cosimo II.

Maria Maddalena nel ritratto conservato presso la villa medicea di Cerreto Guidi.

La fanciulla nacque probabilmente deforme, come tramanda il Vasari “fortemente malcomposta nelle membra”, nel 1600. Condannata dalla sua condizione fisica, sicuramente con problemi di deambulazione, ad una vita ritirata, pur scegliendo il Monastero della Crocetta per prendere i voti, non smise mai di essere una Medici. Il fratello avviò una “bellissima fabbrica” adiacente al Monastero per permettere a Maria Maddalena di condurre una vita all’altezza del suo rango, protetta dagli sguardi del mondo esterno. Il Palazzo, dotato anche di un giardino, venne provvisto di alcuni collegamenti con il Monastero: uno sopraelevato e l’altro sotterraneo (successivamente demoliti e solo in parte ricostruiti). Viene aggiunta inoltre una lunga “Galleria, che partendo da gl’interni appartamenti di essa, distendendosi sopra un ameno Giardino, viene a finire nel riverito Tempio della Santissima Nunziata”, come riferisce il poeta di corte Andrea Salvadori. Su tutto l’edificio fu estesa la clausura riservata al convento, in modo da permettere alle monache di partecipare alla vita della principessa. Naturalmente ciò non vale per il “corridore”: a differenza del Giardino viene infatti espressamente dichiarato “fuor di clausura”, in quanto comunicante con l’interno della basilica, e tenuto chiuso con una chiave della quale esistevano solo due copie: una di Maria Maddalena e l’altra in custodia alla Madre Superiora.

“ … né sia lecito alle monache che per qualsivoglia accidente…mettano il piede in detto corridore” (come decretato dall’Arcivescovo di Firenze nel 1621)

Il “dilettevol Passeggio” venne decorato con immagini sacre, che aiutassero la principessa “nella sua grata solitudine” a rivolgere in alto suoi pensieri e a provare “in Terra qualche parte della gioia del Cielo”. Il lungo camminamento termina direttamente all’interno di un coretto della Basilica della Santissima Annunziata. Da questa stanza la principessa e le sue dame di compagnia potevano affacciarsi sull’interno della chiesa grazie ad una larga finestra, protetta da una grata di bronzo dorato e appena visibile dalla navata in basso, e assistere alle celebrazioni senza essere viste.

Il coretto con gli inginocchiatoi e l’affaccio sulla basilica

Con la morte di Maria Maddalena nel 1633 la clausura decade. Il corridoio viene imbiancato e gli altri collegamenti con il Monastero vengono immediatamente demoliti per volere del Granduca; Cosimo II temeva infatti che le monache, abituate al tenore di vita di Maria Maddalena, potessero in seguito accampare pretese sul Palazzo!

Negli anni successivi il palazzo fu abitato da altre principesse educate nel Monastero della Crocetta: Anna figlia di Cosimo II e Vittoria della Rovere sposa di Ferdinando II. Più tardi dimora dei reggenti, negli anni di Firenze capitale divenne sede della Corte dei Conti, fino alla sua consacrazione come sede del Regio Museo Archeologico. Con l’allestimento del Giardino Monumentale da parte di Milani, le arcate che sostengono il corridoio sono sfruttate per la sistemazione delle sculture.

Il giardino all’inizio del Novecento, quando ancora gli arconi di sostegno del Corridoio Mediceo erano visibili dall’esterno

Con la creazione del nuovo Museo Topografico dell’Etruria a partire dal 1929, le stesse arcate sono in parte obliterate dalla costruzione di sale ad esse addossate. Oggi il corridoio rimane racchiuso all’interno della struttura con copertura in vetro costruita negli anni Ottanta, che lo rende visibile solo dall’interno del Museo. Suggestivo spazio espositivo, negli anni è stato variamente sfruttato sia per mostre che allestimenti temporanei e presto tornerà a giocare un ruolo di primo piano nella valorizzazione delle collezioni del MAF… Restate sintonizzati! 🙂

“Faustina” torna a casa: storia di un’epigrafe rubata dal MAF

Nel mese di ottobre il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (nucleo di Firenze) ha provveduto al dissequestro e alla restituzione al nostro museo di una porzione di epigrafe sequestrata due anni fa al di fuori della Toscana. Si tratta di un frammento sparito dal MAF da vari decenni, spezzato sui margini superiore e destro, e sul quale restano diverse lettere su tre linee di testo.

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Il frammento di epigrafe

Ritrovata presso Bolsena nel 1901, la lastra compariva negli anni 1905-1906 nel Registro dell’allora Regio Museo Archeologico di Firenze con numero di inventario 81213, ma se ne è persa traccia nel corso dei tumultuosi eventi del 900: le due guerre, l’alluvione del ’66 e, non ultimo, lo smantellamento della “terrazza delle iscrizioni” che faceva parte del primo allestimento del Museo.

L’iscrizione pubblicata nel Corpus Inscritionum Latinarum con l’integrazione del testo

Nonostante i pochi dati forniti dalle descrizioni dell’inizio del secolo scorso e la sua sommaria riproduzione grafica (non ne è mai stata fatta una fotografia), è tuttavia stato possibile identificarla con assoluta certezza. L’iscrizione (pubblicata nel Corpus Inscritionum Latinarum vol. XI, n. 7279), è un’epigrafe ufficiale che nomina probabilmente l’imperatrice Faustina Maggiore, cioè Anna Galeria Faustina, vissuta tra 105 e 140 d.C. e moglie dell’imperatore Antonino Pio, o in alternativa la loro figlia Faustina Minore.

Ritratto femminile tipo Faustina esposto al MAF

Le fattezze della moglie di Antonino Pio sono ben note, e nelle collezioni del MAF c’è un ritratto in bronzo di matrona patrizia con una complessa pettinatura, con i capelli suddivisi in trecce e raccolti in una sorta di crocchia, che imita proprio quella che Faustina Maggiore usava sfoggiare; nelle sembianze ricorda invece la figlia di lei, Faustina Minore.

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Apoteosi degli imperatori Antonino Pio e Faustina

I biografi della “Historia Augusta” non sono certo teneri con Faustina Maggiore: la presentano come donna di costumi licenziosi, ne criticano l’avidità, l’eccessiva libertà di modi e di parola, le numerose elargizioni ai suoi favoriti. Nonostante queste (attendibili?) maldicenze, Faustina condusse una vita serena al fianco del suo sposo, ebbe quattro figli, due maschi morti precocemente e due femmine di cui una Annia Faustina (detta la “Minore”) sposerà il futuro imperatore Marco Aurelio. Antonino, divenuto imperatore, reagì a queste voci maligne facendo conferire dal Senato alla moglie il titolo di “Augusta” a testimonianza della buona armonia dei loro rapporti e della sua stima per lei. L’affetto di Antonino Pio per la consorte si espresse poi anche dopo la morte di lei: non solo l’imperatrice venne divinizzata, ma Antonino fondò, a suo nome, un’opera benefica per l’assistenza delle orfane: le giovinette che erano accolte erano dette “puellae Faustinianae”. In onore di Faustina divinizzata fece anche erigere presso il Foro Romano un tempio che alla morte dell’imperatore nel 161 d.C. venne dedicato anche a lui.

Le Giornate Europee del Patrimonio al MAF

Sabato 22 e domenica 23 settembre si celebreranno, nei musei e nei luoghi della cultura di tutta Italia, le Giornate Europee del Patrimonio (GEP) 2018, con tema “L’Arte di condividere”.

Le GEP costituiscono ad oggi il più partecipato degli eventi culturali in Europa, promosso fin dal 1991 dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione Europea. In Italia vi aderiscono i luoghi della cultura statali e i musei locali, ma anche gallerie, fondazioni e associazioni private. Quest’anno, inoltre, l’iniziativa ha un valore ancora più forte, perché il 2018 è l’anno europeo del patrimonio culturale: un’occasione per riflettere e dialogare sul valore che il patrimonio culturale riveste per la nostra società, nei diversi settori della vita pubblica e privata, imparando ad apprezzarlo e custodirlo.

Per tutto il week end saranno organizzate nei musei statali visite guidate e iniziative speciali, mentre una apertura straordinaria con il biglietto di ingresso al costo simbolico di 1 euro è prevista per la sera di sabato 22 settembre.

Al MAF sono previste due iniziative. La sera di sabato 22 il museo sarà aperto dalle 20 alle 23; in due turni, alle 20 e poi di nuovo alle 21,30, si svolgerà la visita guidata partecipata dal titolo “Delitto in Egitto – Mistero al Museo”. L’attività è adatta per adulti e bambini (dagli 8/9 anni), che dovranno seguire la guida e fare luce su un misfatto vecchio migliaia di anni! Per partecipare è OBBLIGATORIA la prenotazione tramite il modulo online disponibile alla pagina ISCRIZIONI.

La mattina di sabato 22 e di domenica 23 (ore 10 e 11,30), e la sera di sabato 22 (ore 20,30 e 21,30) invece, è prevista una speciale visita guidata dal titolo “La collezione egea e geometrica del MAF”, un percorso attraverso simboli e contaminazioni tra civiltà. Per partecipare alle visite guidate NON occorre prenotazione, basta presentarsi all’orario prescelto.

Per seguirci e condividere la tua esperienza sui social puoi usare gli hashtag: #GEP2018 #artedicondividere #EuropeForCulture #museoarcheologicofirenze #MAF. Vi aspettiamo!

Da “Leda” ad “Afrodite”: riscoperta di una scultura

Da poco sono terminate le operazioni di restauro sulla scultura della cosiddetta Leda, realizzati grazie al sostegno finanziario di Friends of Florence con una donazione di Michael e Sandy Collins e dei cui progressi abbiamo dato conto, man mano, sulla nostra pagina Facebook. Il restauro ha restituito la scultura all’originario splendore, facendo riemergere il candore del marmo che era nascosto dal grigio della polvere accumulata nei secoli. Con l’occasione sono state compiute anche nuove indagini bibliografiche, che hanno portato all’identificazione della statua con quella acquistata nel 1882 dall’allora direttore del Museo Luigi Adriano Milani e proveniente dal palazzo Da Cepparello, situato al n. 6 di via del Corso, a Firenze. Il palazzo, abitato originariamente dalla famiglia Portinari (quella della Beatrice di Dante!) e passato successivamente alla famiglia Salviati (quella di Maria moglie di Cosimo I de’Medici), è in ultimo appartenuto ai Da Cepparello, per poi divenire sede di banche e oggi di appartamenti in via di progettazione.

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La scultura è stata riconosciuta come una buona copia romana da un originale greco di età ellenistica, datato attorno al 300 a.C. La differente composizione del marmo in cui è realizzato il corpo da quello di cui è fatta la testa, infine, ha rivelato che quest’ultima, sebbene antica, non è pertinente. La pratica di creare pastiches unendo reperti lacunosi, del resto, è ben nota nel collezionismo settecentesco e ottocentesco, e aveva lo scopo di restituire ad essi l’integrità (e la bellezza e la leggibilità, nello spirito dell’epoca). Anche le braccia e le gambe sono di restauro, probabilmente del XVII o XVIII secolo.

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Prima dell’intervento di restauro sono stati realizzati una completa documentazione fotografica della scultura e una serie di indagini diagnostiche finalizzate al riconoscimento di una eventuale originaria policromia, emersa in tracce nel panneggio e nei capelli (ocra rossa e doratura). L’intervento di pulitura è avvenuto tramite un’apparecchiatura laser per la rimozione graduale delle croste nere. Durante le ultime fasi di restauro è stato realizzato l’incollaggio di un frammento originale con la stessa metodologia e con gli stessi materiali utilizzati in epoche antiche, ancora validi e coerenti con l’attuale esposizione in ambiente museale.

La riscoperta Venere è rimasta collocata, all’interno del percorso museale, là dove si sono svolti i restauri, nella sala di passaggio dopo il Salone del Nicchiola presentazione ufficiale si terrà l’11 settembre 2018 alle ore 19, in occasione dell’apertura serale straordinaria del Museo dedicata ai capolavori del MAF. Vi aspettiamo!

Restauratrice: Daniela Manna

Collaboratori e documentazione fotografica: Simona Rindi, Serena Tizzanini, Carmine Santillo

Indagini petrografiche: Emma Cantisani, Silvia Vettori (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali (ICVBC) del C.N.R di Firenze)

Indagini diagnostiche: Andrea Rossi, Shao-Chun Huang (Diagnostica per i Beni Culturali)

Movimentazione statua: ditta Apice

Autunno denso di eventi al MAF: attività e orari per il mese di settembre

Nel mese di settembre riprende a pieno ritmo l’attività del MAF. Continuano le aperture serali programmate per tutta l’estate, con visite guidate gratuite dedicate al Museo Egizio e, nella sera della Rificolona, alla storia delle lampade e lanterne nel mondo antico. L’11 settembre alle 19, in occasione della serata dedicata ai capolavori del MAF, sarà ufficialmente presentato il restauro della statua di Afrodite, la c.d. Leda, recentemente ultimato e realizzato grazie al contributo di Friends of Florence.

A partire dal 18 settembre avrà poi inizio un nuovo ciclo di aperture straordinarie; non soltanto la sera del martedì, ma anche la sera di sabato e la mattina di domenica in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio; ancora la domenica per la Domenica di Carta e il lunedì pomeriggio, nella ricorrenza di Santa Reparata. In particolare, il sabato 22 settembre sarà organizzata una speciale “visita con delitto” al Museo Egizio: per i visitatori ci sarà da indagare e risolvere un mistero!

Il secondo sabato di ottobre tornerà anche la Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo, con laboratori e giochi per le famiglie, sulla quale vi informeremo presto nel dettaglio.

Il 20 settembre, alle ore 17,00, riprende il consueto appuntamento del giovedì con gli “Incontri al Museo“. A inaugurare il ciclo di conferenze 2018/2019 sarà la curatrice del Museo Etrusco, dott.ssa G.C. Cianferoni, che parlerà della nascita delle collezioni del MAF. Il pdf dell’intero programma di conferenze, fino a maggio, è scaricabile nella nostra area download.

Vi ricordiamo infine che, anche per il mese di settembre, continueranno le chiusure pomeridiane del Museo nei giorni di mercoledì e venerdì; la prima e la terza domenica il museo sarà aperto. 

“Mesci mescolando una misura d’acqua e due di vino”…*

“Beviamo: perché aspettiamo le lucerne? Un dito è il giorno;
ragazzo mio, tira giù grandi coppe decorate:
il vino, infatti, il figlio di Semele e Zeus, oblio dei mali,
donò agli uomini. Mesci mescolando una misura d’acqua e due di vino,
colme fino all’orlo, e l’una l’altra coppa scacci”
[Alc. fr.346 v]

 

Così Alceo, poeta lirico greco vissuto tra VII e VI sec. a.C., invita a dimenticare le ansie della giornata abbandonandosi al dolce oblio del vino, senza attendere che cali la sera per dare il via al simposio. Infatti proprio per questo Dioniso, figlio di Semele e Zeus, avrebbe donato agli uomini il segreto della vite e del vino, per distrarli dagli affanni e dai dolori della vita.

Alcune kýlikes (coppe) attiche a figure rosse.  Nel tondo scene di simposio.

Ma gli antichi, allora, erano tutti ubriaconi 😀 ?

No! Le fonti, unitamente ai rinvenimenti archeologici, consentono di delineare un quadro molto preciso di come nel mondo greco ed etrusco venisse inteso il consumo di vino. Il simposio, momento che seguiva il banchetto e dedicato alla condivisione del bere (syn-píno, bevo insieme) si connota come un momento di profonda religiosità oltre che di svago e piacere: un vero e proprio rituale. Durante il simposio si prega e si invoca il dio, che, assieme al prezioso liquido, ha insegnato agli uomini anche come farne buon uso. Abbandonarsi al bere smodato, infatti, porta l’uomo alla perdita del controllo e lo fa regredire a una stato naturale privo di freni inibitori, al pari delle Menadi invasate o dei Sileni (in parte umani e in parte ferini) che compongono il corteggio del dio, perdendo così quella identità sociale tanto importante nella pólis greca.

Dioniso con un sileno nel tondo di una coppa attica a figure rosse

Per questo motivo il vino si consuma mischiato ad acqua; più acqua che vino nelle proporzioni usuali di tre a uno (miscuglio che Ateneo derideva come “vino delle ranocchie”!), mentre più di rado (è il caso di Alceo) il vino era usato in proporzioni maggiori. Per mescolare si utilizzavano i crateri o i dínoi, vasi panciuti e con l’imboccatura larga da cui era comunque facile attingere il liquido. Il vino puro era ritenuto un eccesso da barbari.

I vasi “panciuti” per il consumo del vino: il cratere (al centro) e i dínoi (ai lati)

L’acqua che si aggiungeva poteva essere sia calda che fredda, a seconda delle stagioni; in estate, infatti, il vino veniva sovente mescolato direttamente a neve o ghiaccio, o raffreddato grazie all’ingegnoso sistema degli psyktéres, dei vasi dalla conformazione adatta per galleggiare all’interno di un cratere: potevano contenere neve o ghiaccio essi stessi, raffreddando così contenuto del cratere, oppure, al contrario, essere posti colmi di vino, all’interno di un vaso contenente neve o ghiaccio.

Un esempio di psyktér, che andava inserito all’interno di un cratere (fonte)

Oltre che con l’acqua, però, occorre dire che il vino veniva “truccato” anche con altri ingredienti: per mitigarne il sapore aspro, infatti, si aggiungevano spezie, miele, resina e vi si grattugiava dentro persino il formaggio (nei servizi da simposio greci ed etruschi, infatti, è spesso presente anche la grattugia!).

 

Grattugia in bronzo da un corredo funerario etrusco. Anche i Greci avevano strumenti analoghi nei serviti da banchetto!

Il consumo vero e proprio, all’interno del simposio, avveniva secondo regole precise: all’inizio si eleggeva un simposiarca, che decideva la proporzione tra acqua e vino (e quindi il tono della serata), il numero di coppe che sarebbe toccato a ciascun commensale e le norme che avrebbero regolato la festa, con le eventuali “penitenze” (di carattere burlesco o derisorio) per chi non le avesse rispettate. Talvolta si ingaggiavano professionisti che allietassero gli ospiti, come musicisti, acrobati o danzatori, oppure gli stessi commensali si cimentavano in giochi di abilità come il kóttabos, che consisteva nel rovesciare, lanciando l’ultima goccia di vino dalla coppa, piccoli recipienti collocati in equilibrio instabile su una particolare asta (il rhábdos kottabiké). Nato come forma di libagione, il kóttabos assunse spesso un carattere amatorio, poiché chi colpiva il bersaglio lo faceva pronunciando il nome della persona di cui sperava procurarsi il favore. La coppa andava presa per l’ansa con l’indice ed appoggiata con la base al polso; il lancio avveniva quindi con gesti assai delicati e calibrati, sempre più difficili man mano che la serata, tra canti e declamazioni, volgeva al termine nell’ubriachezza generale.

Partecipanti al simposio intenti nel gioco del kóttabos (fonte)

Sebbene l’ubriachezza e le sue nefaste conseguenze fossero normale amministrazione al termine dei simposi, non mancavano i moniti per i bevitori: spesso il tondo interno delle coppe è infatti decorato dal Gorgonéion, la testa di Medusa, il cui sguardo pronto a pietrificare fissava dritto negli occhi il bevitore non appena la coppa si svuotava del suo prezioso contenuto. All’esterno, invece, sono comuni le scene di banchetto, mentre un particolare tipo di coppa inventata dal ceramografo Exekías nella seconda metà del VI secolo a.C. presenta, oltre a una scena figurata, anche due grandi occhi apotropaici da cui prende il nome: la coppa “a occhioni”. Queste coppe, sollevate da chi beveva fino a coprire il viso, si trasformavano in una sorta di maschera (gli occhioni in corrispondenza degli occhi e il piede che diventa un buffo naso), proteggendo il bevitore dagli sguardi maligni altrui e facendo al contempo sorridere gli altri commensali.

Le coppe “a occhioni”. Al centro, il Gorgonéion che si può trovare dipinto all’interno delle coppe.

Ponte tra umano e divino, conforto alla vita e al tempo stesso pozione capace di risvegliare l’istinto bestiale dell’uomo, il vino è protagonista di uno dei più importanti momenti della vita sociale e politica dell’antichità, e ancora oggi sono proprio gli splendidi contenitori creati per assolvere le molteplici funzioni del suo consumo che ce ne raccontano la storia e i miti ad essa collegati.

* Delle aperture straordinarie del MAF del mese di agosto, quella di martedì 7 sarà dedicata proprio al vino, con visite guidate incentrate su questo tema.