Le vetrine della sezione egizia del nostro Museo sono popolate da molti strani personaggi, davanti ai quali non si può che restare a bocca aperta una volta messi a fuoco. Alcuni sono seminascosti, altri fanno bella mostra di sè, ciò che li accomuna è che ai nostri occhi risultano tanto insoliti quanto curiosi.
Uno di questi è senza dubbio Toeris (o Taweret), una divinità sempre rappresentata con testa di ippopotamo, busto di donna incinta e zampe posteriori di leone, che cammina eretta.
Toeris così come la vediamo nelle vetrine del MAF, su un frammento di stele
Anche se ormai siamo abituati all’aspetto teriomorfo delle divinità egizie, Toeris rimane una visione sorprendente. In piedi, composta, in atteggiamento umano dunque, riceve le offerte delle donne in processione. Eh sì, perchè la dea era la principale protettrice delle donne in stato interessante, come possiamo facilmente dedurre dal suo pancione.
La gravidanza e il parto, allora come oggi, erano un momento molto delicato nella vita delle donne. Proprio per questo, oltre a prestare cure particolari, si cercava di assicurare una protezione speciale, aggiuntiva, alle future madri dotandole di amuleti specifici per l’occasione raffiguranti il dio Bes, che allontanava gli spiriti maligni, oppure di un gatta coi suoi cuccioli, immagine stessa della maternità, e infine di Toeris.
Amuleto della dea gatta Bastet con i cuccioli (fonte)
Porre un pezzo del vestito della donna incinta all’interno di una statua cava della dea, ad esempio, avrebbe evitato un parto difficile, eventualità da scongiurare il più possibile, visto l’alto tasso di mortalità.
Il ricorso a tali strumenti non è insolito, benchè la scienza medica, in particolare quella relativa alla fertilità e alla ginecologia, fosse tutt’altro che modesta. La medicina aveva infatti quasi la valenza di una magia, che riportava un corpo malato alla precedente condizione di sanità.
Gli Egizi conoscevano cure per l’infertilità, metodi di contraccezione, e addirittura un test di gravidanza predittore anche del sesso del nascituro.
Alcuni fogli del papiro Edwin Smith, uno dei più lunghi papiri medici (fonte)
“…Metodo per riconoscere se una donna partorirà oppure no: mettere orzo e grano in due sacchi di tela che la donna bagnerà con la sua urina ogni giorno; mettere allo stesso modo sabbia e datteri nei due sacchi. Se germoglierà per primo l’orzo sarà maschio; se germoglierà per primo il grano sarà femmina; se non germoglieranno non partorirà…” (traduzione libera del papiro medico di Berlino)
Per quanto bizzarro possa sembrare, un esperimento condotto nel secolo scorso ha dimostrato la validità di questo test che si è rivelato affidabile nel 70% dei casi. Questo perchè a grandi linee si basa sullo stesso principio dei moderni test di gravidanza fai da te, cioè la presenza e l’aumento di specifici ormoni, detti estrogeni, nell’urina delle donne durante la gravidanza. Oggi la presenza degli ormoni è rilevata con una semplice reazione chimica, allora si osservava l’influenza degli estrogeni sulla crescita dei cereali. Si tratta dunque di una prova basata su una verifica empirica che non sottintende una conoscenza chimico-fisica degli ormoni da parte degli Egizi.
Per quanto riguarda il sesso del nascituro invece non c’è alcun collegamento con gli ormoni: possiamo dire che si tratta del corrispettivo egizio del nostro fiorentinissimo “pancia ritta ‘un va alla guerra”!
Sapete da dove viene il nome del primo mese dell’anno? Ianuarius, gennaio, era per i romani il mese dedicato a una delle loro più antiche divinità, Ianus (Giano), il dio bifronte, protettore degli inizi e dei passaggi, un antico dio squisitamente latino che avrebbe portato le leggi tra i popoli primitivi del Lazio, che nelle preghiere era sempre invocato al primo posto e le porte del cui tempio si aprivano solo quando iniziava un periodo di guerra. La sua residenza, ovviamente, era immaginata proprio sul colle che da lui prende il nome, il Gianicolo. Il dio era rappresentato con due volti che guardavano in direzioni opposte: come una porta, segnava un passaggio, contemporaneamente l’inizio e la fine, l’interno e l’esterno, l’entrata e l’uscita.
Il mese Ianuarius con la rappresentazione di Giano in una incisione del XVII secolo conservata al British Museum (fonte)
Il nome di Giano è intimamente connesso anche al termine che i Romani usavano per indicare la porta, ianua. Per questo vogliamo celebrare l’inizio del 2019 proprio come avrebbero fatto nell’antichità, onorando Giano e tutti i passaggi del Museo, siano essi reali o immaginari, custoditi in una vetrina o “a portata di piedi” per tutti i nostri visitatori.
Non è scontato notare, infatti, visitando le sale del primo piano del Museo, che le porte che introducono da una sala in un’altra non sono porte qualunque: mentre nella sezione egizia richiamano le porte dei templi sul Nilo, sormontate dal disco solare alato, nel settore etrusco sono decorate con cornici analoghe a quelle delle porte delle tombe etrusche, con il caratteristico “becco di civetta”. Un’indulgenza al gusto dominante a fine Ottocento, quando il museo fu per la prima volta collocato nel Palazzo della Crocetta, e grande potere evocativo era affidato all’allestimento degli ambienti come fossero una vera e propria scenografia, in stile con i reperti che contenevano.
Una porta della sezione etrusca, a sinistra, e una della sezione egizia, a destra
Porte di ben altra natura sono invece quelle che si trovano riprodotte sulle urne cinerarie etrusche: talvolta un portoncino isolato sulla fronte della cassa, talaltra un battente dischiuso alle spalle di un triclinio. Se non bastasse l’oggetto in sé, le figure di demoni alati che spesso fanno la guardia a questi passaggi ne tradiscono la natura ultraterrena: sono le porte della tomba e contemporaneamente la porta degli Inferi, sulla cui soglia i defunti danno l’estremo addio ai loro cari.
Nella sala IX del Museo, addirittura, una vera porta di pietra di una tomba sembra voler aprire un varco nella parete, con i suoi cardini e il suo battente, esempio piuttosto raro rispetto ai più comuni lastroni di pietra appena sgrossati. La porta segnava l’ingresso di una tomba di Chiusi, e risale al V o IV sec. a.C.
Le porte che simboleggiano l’ingresso nell’Aldilà, il regno di Osiride, sono consuete anche nella rappresentazione delle stele egizie, dove spesso fanno da cornice alle iscrizioni, come nella stele di Khentekhtayaun, in cui sono elencati i nomi di tutti i parenti del defunto (con specificato di quale grado di parentela si tratta) autori della dedica e della preghiera incisa in caratteri geroglifici.
La stele funeraria del maggiordomo Khentekhtayaun
Le vivide immagini che ci restituisce la ceramica attica, invece, raccontano la vita di tutti i giorni nell’antica Grecia. Qui troviamo le porte delle mura urbiche e le porte delle case, con i battenti e le borchie, così sorprendentemente simili alle nostre anche se si tratta della dimora divina di Peleo e Teti. Avreste mai detto, per esempio, che anche la porta di casa di una dea potesse avere la gattaiola? Tra i tanti minuziosi dettagli usciti dal calamo di Kleitias, il pittore del vaso François, c’è anche la piccola apertura che spesso in Grecia veniva lasciata nella porta di casa, per consentire il passaggio a ricci o piccoli animali selvatici ma utili all’uomo perché liberavano le case dai topi.
La porta della casa di Peleo e teti, a sinistra, con la gattaiola, e la porta delle mura di Troia da cui escono i soldati, con i proiettili pronti ad essere lanciati ammassati tra i merli (Vaso François).
Allora, non vi abbiamo invogliato a iniziare il 2019 varcando ancora una volta la soglia (anzi le soglie!) del MAF? Buon anno a tutti!
Sabato 22 e domenica 23 settembre si celebreranno, nei musei e nei luoghi della cultura di tutta Italia, le Giornate Europee del Patrimonio (GEP) 2018, con tema “L’Arte di condividere”.
Le GEP costituiscono ad oggi il più partecipato degli eventi culturali in Europa, promosso fin dal 1991 dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione Europea. In Italia vi aderiscono i luoghi della cultura statali e i musei locali, ma anche gallerie, fondazioni e associazioni private. Quest’anno, inoltre, l’iniziativa ha un valore ancora più forte, perché il 2018 è l’anno europeo del patrimonio culturale: un’occasione per riflettere e dialogare sul valore che il patrimonio culturale riveste per la nostra società, nei diversi settori della vita pubblica e privata, imparando ad apprezzarlo e custodirlo.
Per tutto il week end saranno organizzate nei musei statali visite guidate e iniziative speciali, mentre una apertura straordinaria con il biglietto di ingresso al costo simbolico di 1 euro è prevista per la sera di sabato 22 settembre.
Al MAF sono previste due iniziative. La sera di sabato 22 il museo sarà aperto dalle 20 alle 23; in due turni, alle 20 e poi di nuovo alle 21,30, si svolgerà la visita guidata partecipata dal titolo “Delitto in Egitto – Mistero al Museo”. L’attività è adatta per adulti e bambini (dagli 8/9 anni), che dovranno seguire la guida e fare luce su un misfatto vecchio migliaia di anni! Per partecipare è OBBLIGATORIA la prenotazione tramite il modulo online disponibile alla pagina ISCRIZIONI.
La mattina di sabato 22 e di domenica 23 (ore 10 e 11,30), e la sera di sabato 22 (ore 20,30 e 21,30) invece, è prevista una speciale visita guidata dal titolo “La collezione egea e geometrica del MAF”, un percorso attraverso simboli e contaminazioni tra civiltà. Per partecipare alle visite guidate NON occorre prenotazione, basta presentarsi all’orario prescelto.
Per seguirci e condividere la tua esperienza sui social puoi usare gli hashtag: #GEP2018 #artedicondividere #EuropeForCulture #museoarcheologicofirenze #MAF. Vi aspettiamo!
Nel mese di settembre riprende a pieno ritmo l’attività del MAF. Continuano le aperture serali programmate per tutta l’estate, con visite guidate gratuite dedicate al Museo Egizio e, nella sera della Rificolona, alla storia delle lampade e lanterne nel mondo antico. L’11 settembre alle 19, in occasione della serata dedicata ai capolavori del MAF, sarà ufficialmente presentato il restauro della statua di Afrodite, la c.d. Leda, recentemente ultimato e realizzato grazie al contributo di Friends of Florence.
A partire dal 18 settembre avrà poi inizio un nuovo ciclo di aperture straordinarie; non soltanto la sera del martedì, ma anche la sera di sabato e la mattina di domenica in occasione delle Giornate Europee del Patrimonio; ancora la domenica per la Domenica di Carta e il lunedì pomeriggio, nella ricorrenza di Santa Reparata. In particolare, il sabato 22 settembre sarà organizzata una speciale “visita con delitto” al Museo Egizio: per i visitatori ci sarà da indagare e risolvere un mistero!
Il secondo sabato di ottobre tornerà anche la Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo, con laboratori e giochi per le famiglie, sulla quale vi informeremo presto nel dettaglio.
Il 20 settembre, alle ore 17,00, riprende il consueto appuntamento del giovedì con gli “Incontri al Museo“. A inaugurare il ciclo di conferenze 2018/2019 sarà la curatrice del Museo Etrusco, dott.ssa G.C. Cianferoni, che parlerà della nascita delle collezioni del MAF. Il pdf dell’intero programma di conferenze, fino a maggio, è scaricabile nella nostra area download.
Vi ricordiamo infine che, anche per il mese di settembre, continueranno le chiusure pomeridiane del Museo nei giorni di mercoledì e venerdì; la prima e la terza domenica il museo sarà aperto.
Spesso il mondo antico ci appare come qualcosa di lontanissimo dalla nostra vita quotidiana e facciamo fatica a vedere negli oggetti esposti in un museo qualcosa che realmente qualcuno ha usato e maneggiato. Certamente molto è cambiato, ma ci sono utensili insospettabili che nella loro prima realizzazione hanno centrato talmente bene l’obiettivo per il quale erano stati creati che sono rimasti pressochè identici fino ai giorni nostri! Non ci credete? Eppure è proprio tra gli oggetti che usiamo tutti i giorni che è più facile trovare assonanze con i reperti antichi. Cosa c’è di più abituale per noi del grattugiare un po’ di formaggio su un piatto di pasta o del versare la minestra fumante nelle scodelle per cena?
Grattugia etrusca dalla Tomba dei Flabelli di Populonia (650-600 a.C.) che conserva ancora parte dell’immanicatura in legno
In effetti l’azione che gli Etruschi svolgevano era identica a quella che facciamo noi ogni giorno: afferravano per il manico la grattugia e ci strofinavano sopra il formaggio (o anche radici di spezie); ugualmente con il simpulum, che oggi chiameremmo ramaiolo, attingevano del liquido da un recipiente per versarlo in un altro. La differenza è che questi due utensili servivano per arricchire e poi servire non del cibo, ma il vino! Erano infatti due elementi essenziali del servizio da simposio.
Simpulum dalla Tomba dei Flabelli di Populonia (675-650 a.C.)
Sempre per restare in ambito culinario abbiamo addirittura due strumenti in uno: un imbuto e allo stesso tempo un colino. Si tratta dell’infundibulum, oggetto dalla raffinata fattura che grazie alla cerniera permetteva di sollevare il colino se il liquido da travasare non doveva essere filtrato.
Infundibulum dalla Tomba dei Flabelli di Populonia (580-560 a.C.)
Ancora in cucina abbiamo un oggetto pensato appositamente per i più piccoli, potrebbe essere considerato l’antenato del nostro biberon.
Poppatoio a forma di animale e poppatoio a vernice nera (età ellenistica)
Si chiama guttus, letteralmente un vaso che fa uscire il liquido una goccia alla volta. Talvolta era realizzato a forma di animale per risultare ancora più accattivante per il bambino, con la stessa attenzione che mettiamo oggi nel decorare gli oggetti dedicati ai piccolissimi, e poteva avere anche la funzione di un sonaglino. Spesso infatti all’interno conteneva dei piccoli pallini di argilla che non potevano uscire dallo stretto condotto dal quale il bambino beveva, ma che risuonavano quando il vaso veniva scosso, ma solo dopo che il latte era finito! Un biberon-giocattolo che rispondeva sia a criteri di sicurezza che di estetica per il destinatario insomma.
Usciamo finalmente dalla cucina e mettiamoci comodi: questi vi ricordano qualcosa?
Particolare del sarcofago di Larthia Seianti (Chiusi, II sec. a.C.)
Qui entrano in gioco fattori quali il gusto e la moda del tempo, ma sicuramente forma e dimensione rivelano che non molto è cambiato dal II sec. a.C. nel quale visse Larthia Seianti, almeno per quanto riguarda i cuscini!
Terminiamo questa breve carrellata con un’altra azione quotidiana, la chiusura delle finestre. Accanto ai moderni impianti a serrande avvolgibili resistono ancora nelle nostre case le persiane in legno o in altri materiali.
Persiane egizie di epoca tarda (provenienza sconosciuta) e persiane del MAF
Nelle case degli Egizi non servivano solo ad oscurare, ma fungevano anche da chiusura della finestra, che non aveva lastre di vetro.
Questi sono solo alcuni dei moltissimi possibili esempi, tutti visibili nelle sale del museo, a ricordarci che gli antichi non erano poi così diversi da noi!
Tra le recenti acquisizioni del Manf, presentate al pubblico in occasione della mostra L’Arte di donare. Nuove acquisizioni del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, figurano due mummie di canidi che vengono ad arricchire il già consistente gruppo di mummie animali in possesso del museo, costituito da ben 65 esemplari.
Mummie di canidi esposte alla mostra
Le due mummie, assegnate al Museo nel 2013 dal Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale di Roma, risultato di una indagine sulla liceità del possesso, sono provenienti da un lascito ereditario e pertanto non è possibile identificarne il luogo d’origine in Egitto né fissarne precisamente la cronologia, sebbene, come vedremo, l’uso di imbalsamare animali, presente solo in Epoca Tarda, possa favorire una datazione a questo periodo.
Ma perché gli Egizi praticavano la mummificazione, e perché mummificavano anche i loro animali?
La mummificazione, venne adottata dagli Egizi quale sistema ordinario di sepoltura al fine di consentire la sopravvivenza dei corpi nell’aldilà. Essi infatti credevano che la conservazione del corpo avrebbe assicurato al Ka – l’anima o l’essenza spirituale del defunto- di utilizzarlo quale veicolo in cui incarnarsi. La mummia quindi, così come la statua, non era un semplice tributo alla memoria, ma la sua funzione precipua era quella di servire da base per un’altra vita, quella del Ka, che in essa si incarnava. Senza alcun supporto fisico infatti, l’anima- sotto aspetto di Ka, Ba (la “manifestazione animata del defunto”) o Ash (il generico principio di immortalità) – non potendosi incarnare, si sarebbe perduta in una eternità di supplizi.
La conservazione del corpo materiale era di primaria importanza, e ciò spinse gli Egizi a sviluppare raffinate tecniche di conservazione dei corpi.
I materiali e le tecniche utilizzate, pur variando nel tempo, rimasero costanti nei principi base che prevedevano l’eviscerazione del cadavere (lavato con vino di palma e asciugato con panni di lino) e la sua essiccazione mediante immersione in un composto di sali (natron), per consentire la disidratazione dei tessuti grassi e con funzione battericida, per una durata tradizionalmente fissata sui 40 giorni. Seguiva una fase di circa 30 giorni in cui, raggiunta la completa disidratazione, il corpo veniva ricoperto di resine e di oli sacri, incensato ed infine avvolto in bende di lino secondo un procedimento altamente complesso. La mummia veniva poi deposta nel sarcofago e collocata nella tomba, ove erano deposti gli oggetti indispensabili alla vita quotidiana e dipinte scene della vita di tutti i giorni, in maniera da garantire una inesauribile fonte di approvvigionamento al defunto nel caso malaugurato in cui le offerte, che i vivi erano tenuti a recare ai morti, fossero state interrotte per un qualunque motivo.
Non erano però solamente gli umani ad essere sottoposti a questo procedimento: i musei di varie città del mondo sono pieni di mummie delle specie più diverse, compresi bovini, babbuini, arieti, leoni, gatti, cani, iene, pesci, pipistrelli, gufi, gazzelle, capre, coccodrilli, toporagni, coleotteri scarabei, ibis, falchi, serpenti, lucertole e molti tipi di uccelli: è perciò probabile che gli Egizi credessero che anche gli animali, come gli umani, possedevano un Ka, e forse anche un Ba e un Akh. Il procedimento era simile a quello seguito per gli esseri umani: eviscerazione, essiccamento sotto natron, lavaggio, accurata fasciatura e deposizione nel sarcofago. Le indagini archeologiche hanno riportato alla luce interi cimiteri riservati agli animali, come la necropoli di Saqqara, dove sono state identificate, all’interno di una catacomba particolarmente estesa, ben otto milioni di mummie di cani, o quella di Tuna el-Gebel, che ha restituito circa quattro milioni di mummie di ibis. Le mummie animali giunte fino a noi possono essere suddivise in diverse tipologie. Un gruppo importante è costituito dagli animali domestici, cani, gatti ma anche manguste, scimmie, gazzelle e uccelli. Questi animali venivano spesso mummificati e sepolti con i loro proprietari, o fuori della loro tomba, nel caso in cui la loro morte precedeva quella dell’individuo cui essi appartenevano, in attesa di accompagnarli anche nell’aldilà: l’esempio quasi commovente di un uomo chiamato Hapymin, sepolto nel periodo compreso tra l’epoca tarda e la XXX dinastia con il suo cane raggomitolato ai piedi, può fornire forse la prova migliore del forte sentimento che gli Egizi nutrivano per i loro animali.
Un’altra tipologia è costituita dalle mummie di animali considerati sacri, come ipostasi delle divinità: ad esempio il toro Api a Menfi o l’ariete Banebged a Mendes erano oggetto di venerazione dalle età più antiche, scelti dai sacerdoti secondo precisi criteri (ad esempio una macchia sulla pezzatura) e adorati e accuditi come fossero il dio stesso. Alla loro morte, venivano imbalsamati e solennemente sepolti in una catacomba, mentre il loro principio divino migrava in un altro esemplare dalle caratteristiche simili.
La categoria di mummie animali più numerosa, e più frequente nelle collezioni dei musei di tutto il mondo, è quella delle offerte votive: in questo caso, la mummia di uno specifico animale veniva dedicata alla divinità corrispondente (ogni dio aveva un animale specifico che era il suo totem o simbolo, ad esempio il gatto era sacro a Bastet, dea del piacere, dell’amore e della bellezza, gli Ibis a Thot, dio della conoscenza), in modo tale che la preghiera dedicata al dio dal pellegrino, e rappresentata dall’animale imbalsamato, potesse essergli indirizzata e rivolta per l’eternità. Le mummie venivano offerte e conservate nel tempio fino alla festa annuale o semestrale del dio, dopodiché venivano sepolte in apposite, enormi, catacombe.
Mummia di serpente con sarcofago. Sul coperchio è rappresentato il serpente in rilievo (fonte)
Questi animali venivano allevati in prossimità dei santuari e poi deliberatamente uccisi per essere imbalsamati e venduti ai pellegrini. Con il tempo, si creò un vero e proprio sistema economico ruotante intorno a questi santuari, che accoglievano officine destinate alla produzione, alla imbalsamazione e alla vendita di mummie, e non mancano prove dell’esistenza di edifici destinati alla cova delle uova di coccodrillo (a Medinet Mari) o di uccelli.
Del resto, le mummie erano parte integrante dell’economia di questi santuari: migliaia di animali dovevano essere allevati e accuditi a spese del tempio, su cui ricadevano anche i costi di mantenimento dei sacerdoti addetti al culto, della manodopera specializzata e dei materiali necessari per l’imbalsamazione, provenienti da diverse parti dell’Egitto o dall’estero (ad esempio le resine, incluso l’incenso e la mirra, venivano importate dalla Siria o dall’Etiopia). Fu probabilmente per far fronte alla richiesta sempre crescente che cominciarono ad essere prodotti esemplari di scarsa qualità, tanto più che questa dipendeva anche dalle disponibilità economiche dell’acquirente, e che si misero in atto delle pratiche probabilmente fraudolente: le indagini diagnostiche cui sono state sottoposte alcune mummie hanno infatti rivelato che queste erano dei “falsi”, cioè erano state bendate per dare l’idea di un animale specifico, ma di fatto contenevano i resti di un animale diverso, le ossa di più esemplari o addirittura solamente sabbia, grumi di fango, bende e materiale di vario genere. Bisogna però tenere conto anche della precipua mentalità egizia per la quale la parte (pochi resti ossei o solo le piume) vale il tutto (l’intero animale) nonché il budget del pellegrino, che qualora molto basso, non consentiva l’acquisto di esemplari “autentici”.
L’ultima categoria di mummie animali è costituita dalle mummie cosiddette “alimentari”, ovvero da cibi mummificati come costolette di manzo, anatre e oche, collocate nella tomba affinché il defunto se ne potesse nutrire. La carne e il pollame venivano preparati come se fossero pronti per essere cucinati: la carne veniva scuoiata e spezzettata, il pollame spennato ed eviscerato, e nella maggior parte dei casi, venivano rimosse la testa, le ali e le zampe. Dopo l’essiccazione, il fegato e la varie frattaglie venivano reinserite all’interno del corpo tramite delle cavità opportunamente create. Alcune di queste mummie presentano una colorazione marrone, come se fosse stato dato loro intenzionalmente l’aspetto di una cosa appena arrostita, con l’applicazione di resine calde che ovviamente brunivano le bende.
La pratica della mummificazione di animali è attestata durante l’intero arco della storia egizia, ma è soprattutto durante l’Epoca Tarda e nei Periodi Tolemaico e Romano che si diffonde con enorme successo la pratica delle mummie votive, probabilmente quale reazione alla minaccia straniera che spinse gli Egizi a cercare nuovi modi con cui affermare il proprio senso di identità e ribadire la propria cultura e le proprie tradizioni religiose. Il fenomeno perdurò circa fino al 350 d.C., quando venne interrotto dal trionfo del cristianesimo.
Quando si guarda indietro di centinaia (a volte migliaia!) di anni, spesso sembra difficile immedesimarsi e capire realtà che apparentemente niente hanno a che fare con il nostro tempo; ma basta poco, la forma insolitamente familiare di un oggetto, una analogia inaspettata nelle abitudini e il passato rivive davanti ai nostri occhi. È proprio quello che accade quando ci troviamo ad avere a che fare col cibo degli antichi, che sia scolpito su una stele o dipinto in un affresco, o, in certi e rari casi, straordinariamente conservato.
Una delle locandine del Mibact per la campagna di comunicazione di gennaio
Lo spunto per parlare di cibo (e in particolare quello degli Egizi) nel primo post dell’anno ci viene proprio dalla campagna di comunicazione ministeriale, che ha dedicato il mese di gennaio all’ #annodelciboitaliano, invitando gli utenti a cercare e riconoscere nei musei spunti legati al cibo. Quanti possono infatti immaginare che nel nel Museo Egizio di Firenze siano conservati addirittura pani e ceste di datteri, perfettamente essiccati grazie al clima caldo e asciutto del deserto?
Un cestino di frutti della palma dum (a sinistra) e una forma di pane (a destra)
Gli antichi egizi credevano che il defunto, una volta riuscito a fare il suo ingresso nel regno di Osiride, avrebbe avuto bisogno di tutto ciò di cui disponeva in vita per poter tranquillamente condurre la sua esistenza ultramondana; quindi una casa, gli arredi, i servitori e, soprattutto, il cibo. Il cibo era provvisto dai parenti, che spesso sono rappresentati sulle stele mentre, in processione, recano le offerte alimentari; gli alimenti sono anche rappresentati disposti sulle tavole, in eccezionale abbondanza, davanti ai defunti seduti in trono.
Due stele con rappresentata la tavola delle offerte: vi si distinguono pani di diverse forme, volatili, arti di bovino, verdure.
Talvolta si mettevano invece nella tomba statuette di servitori intenti nella preparazione di un cibo, un atto che magicamente si sarebbe rinnovato per l’eternità: così le serve che macinano la farina per preparare il pane o intente nella preparazione della birra, che costituiva un elemento fondamentale nella dieta, assai più del vino o di altre bevande.
Donne intente nella preparazione della farina (a sinistra) e nella spremitura dei pani di orzo per la preparazione della birra (a destra)
La birra che si beveva in Egitto era diversa da quella attuale; si otteneva a partire dalla fermentazione di pani di farina d’orzo, frantumati, imbevuti di succo di datteri e lasciati immersi in contenitori di terracotta. Successivamente i pani venivano strizzati e il liquido filtrato (proprio l’operazione a cui si dedica la nostra statuetta), oltre che modificato con l’aggiunta di aromi e spezie.
L’alimentazione degli antichi egizi non doveva poi differire troppo dalla nostra: vi erano la carne, prevalentemente di volatili (anche appositamente allevati), e il pesce pescato nel Nilo, che sostituiva la carne per chi non poteva permettersela (proprio il contrario di ciò che accade oggi!).
Scena di pesca (a sinistra) e dettaglio di una stele con rappresentazione di un allevamento di anatre (a destra)
Molto abbondante era la varietà di frutta e verdura: fichi, uva, meloni, e poi cavoli, porri e cipolle, lattuga. Così come oggi, erano diffusi anche il latte (sia bovino che ovino) e tutti i suoi derivati. Sulla tavola accompagnava sempre tutto il pane, che era cotto in una grande varietà di forme e dimensioni.
Naturalmente, però, non tutti questi cibi comparivano in contemporanea sulla tavola di ogni giorno; le immagini che noi abbiamo vanno filtrate, perché fanno sempre riferimento a situazioni particolari, rituali e cerimonie, in cui il pasto deve necessariamente essere connotato da ricchezza e abbondanza. Del resto, anche oggi, nella sempre più diffusa abitudine di immortalare i propri pasti, non è forse vero che coinvolgiamo quelli delle occasioni speciali piuttosto che le sbrigative e frugali abitudini giornaliere?
Oggetto della campagna di comunicazione del Mibact per questo mese è la moda nell’arte: niente di più lontano dall’archeologia, apparentemente… ma non è così! Le vetrine del Museo Archeologico e del Museo Egizio sono piene di oggetti curiosi relativi alla vita di tutti i giorni che gettano un ponte tra noi e i millenni passati, dimostrando come, in fondo, la vanità e il desiderio di apparire degli antichi non fossero così diversi da quelli dell’epoca moderna, avvicinandoci immediatamente a realtà che sembrano sepolte e dimenticate.
#artemoda sulle sponde del Nilo. Tessuti trasparenti plissettati, sandali infradito, parrucche e gioielli sorprendenti per la loro modernità sono solo alcuni dei tesori che le tombe dell’antico Egitto hanno svelato; non solo grazie alla conservazione delle fibre organiche che ha portato fino a noi gli oggetti reali, ma anche grazie alle conferme e che giungono da rilievi e illustrazioni. Mentre gli uomini di alto rango indossavano una lunga gonna trasparente di lino al di sopra di un perizoma, l’abbigliamento delle donne e delle dee era un lungo abito attillato che terminava sotto il seno, trattenuto da ampie bretelle e impreziosito da gioielli, bracciali, pettorali, cavigliere, anelli e orecchini. Sul capo, che spesso per ragioni igieniche era rasato, si indossavano parrucche di treccine, su cui veniva posizionato un cono di grasso profumato che, sciogliendosi a poco a poco con il calore, donava lucentezza alla chioma. Importantissimo era anche il trucco, soprattutto degli occhi: piccoli astucci dotati di un tappo servivano per conservare ed applicare il kohl, mentre delle tavolette di pietra erano utilizzate per preparare le polveri necessarie al trucco. L’uso del trucco nero attorno agli occhi, così “pesante” come le raffigurazioni ce lo mostrano, aveva anche una funzione pratica oltre che estetica, essendo finalizzato ad evitare il riflesso dei raggi solari e a mantenere pulita una zona così delicata come quella del contorno occhi. Nel nostro museo è conservato persino uno strumento che serviva per creare le plissettature, pressandovi sopra la stoffa imbevuta di sostanze apprettanti.
Tutti i reperti sopra illustrati sono conservati al museo egizio di Firenze. Per scaricare l’infografica in formato pdf in alta risoluzione, clicca sull’immagine!
#artemoda in Grecia. Rispetto a quanto accade per l’Egitto, per ricostruire la moda nella Grecia antica disponiamo soltanto delle fonti iconografiche. Nell’abbigliamento femminile i capi fondamentali sono due, il peplo e il chitone. Il primo consiste in un rettangolo di stoffa (in genere lana) piegato a metà e fissato attorno al corpo con fibule e spilloni; il secondo, invece, di stoffa più leggera, era cucito sulle spalle e lungo i fianchi, e poteva essere cinto in vita o con una sorta di bretelle incrociate sul seno. Una delle prime rappresentazioni del peplo si trova proprio sul vaso François. Sopra veniva portato l’himation, il mantello, girato attorno ai fianchi, tirato su a coprire la testa o ad avvolgere tutto il corpo. Il mantello era la componente fondamentale anche dell’abbigliamento maschile, generalmente drappeggiato a partire dal lato destro del corpo verso quello sinistro, con sotto il chitone, uguale a quello femminile ma corto (soltanto sacerdoti, musicisti e aurighi potevano indossare quello lungo). Grande rilevanza avevano anche gli accessori: cintura, fibule, spilloni, ornamenti per i capelli. In età arcaica anche gli uomini (aristocratici) portano i capelli lunghi, raccolti in trecce e ornati da bende; un accessorio tipico delle acconciature femminili era il sakkos, una cuffia per raccogliere i capelli. Tra i prodotti di bellezza c’erano gli oli profumati per il corpo, utilizzati sia dagli atleti che dalle donne, che venivano conservati in appositi vasetti di piccole dimensioni e con l’imboccatura stretta (ariballoi e lekytoi).
Tutti i reperti sopra illustrati sono conservati al museo archeologico di Firenze. Per scaricare l’infografica in formato pdf in alta risoluzione, clicca sull’immagine!
#artemoda in Etruria. Come per la Grecia, anche per l’Etruria la ricostruzione della moda parte di necessità dagli accessori e dalle immagini, mancando la documentazione materiale dei tessuti. Nella moda di età orientalizzante ricorre l’uso delle trecce per raccogliere i capelli lunghi, confermato dai numerosi “fermatrecce” di metallo prezioso rinvenuti nelle tombe (sia maschili che femminili). Gli uomini di rango aristocratico dovevano indossare tuniche di lana, decorate a losanghe o quadretti (così come le donne) coperte da un mantello, mentre i guerrieri un corto perizoma con cinturone. Gli accessori in questo periodo sono variegati e preziosi: dai pettini in avorio alle enormi fibule d’oro, da parata, che dovevano trattenere gli indumenti, agli spilloni riccamente decorati. Balsamari importati dalla Grecia con gli oli profumati e pissidi in avorio per contenere gli oggetti da cosmesi completavano il corredo. Il processo di ellenizzazione avviato dalla fine del VII sec. investe poi in profondità anche la moda, e i costumi diventano analoghi a quelli greci contemporanei, con l’adozione di chitone e himation; diverse sono però le calzature, i calcei repandi, i tipici stivaletti con la punta arricciata all’insù. In età classica per gli uomini si aggiunge all’himation la tebenna, un mantello semicircolare drappeggiato su una spalla; in questo periodo i capelli degli uomini sono corti, quelli delle donne raccolti in uno chignon o nel sakkos greco. Le donne come ornamenti indossano prevalentemente grandi orecchini d’oro e diademi preziosi, mentre si riduce l’uso di fibule decorative e vistose a favore di altre più semplici, a molla, in cui prevale l’aspetto funzionale. Le scarpe sono basse e con lacci intrecciati. In età ellenistica tornano in gran voga i gioielli, ispirati all’arte toreutica macedone, così come gli specchi e le ciste bronzee per contenere gli oggetti di bellezza. Esempi completi dell’abbigliamento etrusco di II sec. a.C. (che prelude oramai a quello romano) sono Larthia Seianti e l’Arringatore, che mostrano nel dettaglio le vesti, la capigliatura e gli ornamenti personali del periodo (per approfondire vi rimandiamo ai singoli post dedicati a questi personaggi!).
Tutti i reperti sopra illustrati sono conservati al museo archeologico di Firenze. Per scaricare l’infografica in formato pdf in alta risoluzione, clicca sull’immagine!
Torna anche quest’anno la campagna Maggio dei Libri, promossa dal Centro per i Libri e la Lettura e sostenuta dal Mibact con l’ashtag #lartechelegge, che contraddistinguerà la campagna social di questo mese. I visitatori dei musei italiani potranno divertirsi alla ricerca di libri, papiri, scritture raffigurati in sculture, vasi e affreschi delle epoche e delle collezioni più disparate, per condividerli poi sui social. Noi intanto cominciamo, se non proprio dall’inizio, almeno da mooolto tempo fa!
La scrittura dell’antico Egitto è uno degli aspetti che più affascina e intriga fin da bambini: chi non ha mai sentito parlare di geroglifici, di cartigli, della stele di Rosetta e della storia della sua decifrazione?
I geroglifici dipinti nel XIX secolo come decorazione nella sala III del museo. Vi si possono leggere i nomi di Umberto e Margherita di Savoia.
I geroglifici costituiscono un sistema estremamente complesso di scrittura; ad essi si accompagnavano altri due sistemi, lo ieratico (dal greco hierós, sacro) e il demotico (dal greco démos, popolo), il primo utilizzato dai sacerdoti come sistema semplificato di scrittura e il secondo, da esso derivato, impiegato per le esigenze della vita quotidiana soltanto dal VII sec. a.C. Mentre il geroglifico si serve di disegni stilizzati (a cui può corrispondere un oggetto -pittogrammi-, un concetto -ideogrammi- o semplicemente un suono), gli altri due sistemi impiegano segni più corsivi e più veloci da tracciare.
Papiro con scrittura geroglifica (a sinistra) e ieratica (a destra)
Proprio per questa sua complessità, la scrittura era appannaggio di pochi eletti: il faraone, certamente, pochi nobili appartenenti alla sua corte e, soprattutto, gli scribi. Il loro percorso di studi iniziava fin da bambini e, perché acquisissero al meglio la capacità di scrivere, richiedeva molti anni: l’alfabeto infatti, che all’inizio contava circa settecento segni, vide aumentarli a dismisura nel corso dei secoli, fino a oltre cinquemila.
La pianta di papiro coltivata nel giardino del MAF
Ma quali erano i “libri” degli antichi Egizi? I papiri, naturalmente. I fogli di papiro erano ottenuti lavorando la parte interna del fusto della pianta, che cresceva lungo le sponde del Nilo. Le strisce sottili che se ne ricavavano venivano giustapposte in più strati, con le fibre disposte in senso orizzontale o verticale, alternate; gli strati aderivano poi l’uno all’altro grazie alla loro stessa secrezione e venivano infine battuti e pressati; i lunghi rettangoli così ottenuti erano poi conservati arrotolati su se stessi. Si scriveva utilizzando lo stilo, una sottile bacchettina di legno che veniva spesso mordicchiata ad una estremità per renderla più flessibile e precisa; l’inchiostro utilizzato era di due colori: rosso, ottenuto con la polvere di minio o di cinabro, e nero, ottenuto con la fuliggine. A restituirci queste preziose informazioni sono i corredi di scribi che sono giunti fino a noi, che comprendevano le boccettine per la conservazione dell’inchiostro (dei veri e propri calamai) e le tavolette per riporre lo stilo e preparare il colore, come quelle conservate al museo.
Il corredo dello scriba
I papiri non erano però l’unico supporto per la scrittura: oltre alle stele, incise e sovradipinte, per gli “appunti volanti” venivano utilizzati anche i cocci dei vasi rotti (óstraka in greco) o schegge di pietra avanzate dall’opera degli scultori: un comodo supporto usa e getta di nessun valore, che consentiva di non sprecare i preziosi fogli di papiro. Quelli conservati nel nostro museo riportano appunti, ma anche numeri e conteggi:
Óstraka (in basso a sinistra i conteggi)
Gli scribi sono spesso rappresentati nelle sculture e nei rilievi egizi, quasi sempre sono seduti a gambe incrociate, la posizione che li contraddistingueva e che consentiva loro di appoggiare sulle gambe la tavoletta necessaria per sostenere il foglio su cui scrivevano.
Il rilievo degli scribi
C’è però al MAF un rilievo molto famoso di epoca amarniana, noto appunto come rilievo degli scribi, che ci restituisce una scena molto vivida e articolata: su piani diversi sono rappresentati quattro scribi, intenti a fissare nella stessa direzione, con in mano la tavoletta e lo stilo, pronti a trascrivere tutto ciò che stanno ascoltando, come dei moderni giornalisti. La caratteristica di questo rilievo è la grande naturalezza con cui sono rese le figure e il rispetto della profondità della scena in contrapposizione alla consueta piattezza e schematicità, elementi che caratterizzano l’arte egizia soltanto nell’epoca della XVIII dinastia (quella di Tutankhamon), chiamata amarniana dalla città di El Amarna, in quel tempo capitale del regno. Il rilievo, del quale il MAF possiede solo un frammento, si completa con il pezzo oggi conservato al museo di Leiden, nel quale è ritratto il faraone che detta la legge.
La campagna social del Mibact per il mese di marzo è dedicata alle creature fantastiche. Il nostro museo è per sua stessa natura un meraviglioso bestiario di mostri, demoni, creature ibride e magiche che, se certo non spaventano più come un tempo, non cessano comunque di esercitare il loro potente fascino sui visitatori grandi e piccini.
Le sale in cui forse la fantasia dei curiosi trova maggiore soddisfazione sono quelle del Museo Egizio, che ci restituiscono nei vividi colori originali le immagini delle numerosissime divinità che “popolavano” le sponde del Nilo.
Nell’antico Egitto la divinità mantiene sempre una importante componente zoomorfa: ogni dio viene indifferentemente raffigurato in forma umana (se ne ha una), animale o con il corpo umano e la testa animale. È così per Horus, il dio-falco figlio di Osiride, o per Hathor, la dea-vacca che incontriamo sotto forma di animale e in forma umana, ma con le corna di vacca (tra le quali è inserito il disco solare) nel rilievo di Seti I. Hathor era la dea-madre, dea dell’amore e aveva il compito di scortare il faraone nell’Aldilà.
La dea Hathor in forma umana, a sinistra, e in forma di vacca, a destra
La scultura in granito rosa che rappresenta la dea proviene dall’Iseo del campo Marzio a Roma, dove fu portata come bottino; accucciato tra le zampe dell’animale è il faraone Horemheb (1319-1291 a.C.), identificato da una iscrizione, intento a bere il latte dalle sue mammelle. Il latte aveva per gli antichi Egizi un importante significato rituale, legato alla purificazione e alla resurrezione.
Toth, invece, il dio inventore della scrittura, ha addirittura due forme animali, di babbuino e di ibis. Toth lo troviamo nei frammenti di papiro che ci restituiscono una parte ben nota del libro dei morti, quella relativa all’ingresso del defunto nell’Aldilà e alla cerimonia della pesatura del cuore. Il libro dei morti era un testo sacro nell’antico Egitto in cui erano raccolte preghiere e il racconto di tutti i passaggi che l’anima doveva affrontare per arrivare nel Regno dei Morti, compreso quello della pesatura: il cuore del defunto (che rimaneva nel corpo mummificato, a differenza degli altri organi che venivano rimossi) veniva messo sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro era posta la piuma attributo della dea Maat, divinità dell’ordine, della verità e della giustizia.
Scena della pesatura del cuore: da sinistra Thot, con testa di Ibis, è il giudice e scrive; Ammit, di cui si vede solo la testa di coccodrillo, è pronta a divorare il cuore impuro; Anubi, con testa di sciacallo, ha il ruolo di accompagnare il defunto; sulla bilancia è di nuovo rappresentato Toth, questa volta in forma di babbuino; alla scena è presente anche Horus, con testa di falco.
Solo se la bilancia fosse rimasta in equilibrio il cuore sarebbe stato puro e avrebbe permesso di accedere alla vita eterna; in caso contrario il cuore sarebbe stato divorato da Ammit, un mostro femmina chiamato anche “la divoratrice“, che si trova sempre rappresentato in questa scena: una creatura con testa di coccodrillo, parte anteriore del corpo di leone e parte posteriore di ippopotamo.
Un’altra creatura fantastica, la cui benevola presenza aleggia nelle ultime sale del Museo Egizio, è Bes: un nano grottesco dalle fattezze mostruose, con gli occhi sporgenti e la lingua fuori tra i riccioli di una folta barba.
Bes è un demone protettore della casa e che sovrintende alla nascita dei bambini: il suo aspetto minaccioso e le sue smorfie hanno la funzione di allontanare gli spiriti maligni. La scultura conservata al museo, datata al periodo tolemaico, in origine era probabilmente il capitello di una colonna.
E voi, quali altre #creaturefantastiche avete trovato?