28/2/1889: Umberto I decreta l’istituzione del Museo Centrale dell’Etruria a Firenze

La formazione delle collezioni dei musei Archeologici di Firenze ha una storia molto lunga, che inizia con le collezioni di preziose antichità dei Medici, conservate inizialmente agli Uffizi, e prosegue fino alle spedizioni e agli scavi del secolo scorso. I due musei, quello egizio e quello delle antiche collezioni, seguono una storia pressoché parallela che si contestualizza in quel fenomeno di ampia portata che è la formazione dei musei come istituzioni statali nel XIX sec., legata alla formazione delle nazioni moderne.

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La targa apposta all’ingresso del Museo Egizio

Nell’età del Romanticismo, tra 1815 e 1848, si registra in Italia una evidente corrispondenza tra le clamorose scoperte archeologiche in Etruria (intere tombe a camera con i loro corredi, sia in Lazio che in Toscana) e l’ideologia politica risorgimentale: nella ricerca delle radici storiche nazionali le testimonianze della lingua e della cultura materiale etrusca sono intese come le prime testimonianze di italianità. Se da un lato, infatti, il sentimento nazionale si identificava naturalmente con la storia di Roma, dall’altro essa risultava fin troppo ecumenica e universale, accomunando tanti paesi e province diversi. Le origini del popolo italiano furono pertanto ricercate ancora prima di Roma, nelle popolazioni italiche, Etruschi in testa, come se fossero stati i primi veri unificatori della nazione.
In questo periodo il museo va a sostituire le collezioni private, raccolte di stranezze e mirabilia; a differenza di queste ultime organizza e classifica, in modo didascalico e storicizzato, ciò che espone, così da permettere al visitatore la comprensione degli oggetti.

La targa apposta all'ingresso del Museo Etrusco
La targa apposta all’ingresso del Museo Etrusco

Negli anni intorno all’unificazione d’Italia, e poi con lo spostamento della capitale a Firenze nel 1864, la necessità di riorganizzazione delle collezioni di antichità anche nella nostra città si fece sempre più pressante. Nel 1870 (nell’anniversario dell’unità, 17 marzo) Vittorio Emanuele II decreta dunque l’istituzione del museo etrusco con sede al Cenacolo del Fuligno, in via Faenza, dove già dal 1855 si trovava il museo egizio; alla fine del decennio si decise poi per una nuova sede, ancora più grande e adatta ad ospitare le collezioni, che nel 1881 furono spostate nel Palazzo della Crocetta.

La targa ancora oggi esposta in Museo che ricorda il Regio Museo Archeologico
La targa ancora oggi esposta in Museo che ricorda il Regio Museo Archeologico

Con il decreto del 28 febbraio 1889 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100 del 26 aprile) Umberto I rinomina il museo etrusco Regio Museo Centrale della Civiltà Etrusca, mantenendogli accanto l’egizio, a fare da pendant al museo di Villa Giulia a Roma, istituito il 7 febbraio dello stesso anno, e come esso “destinato ad essere uno dei principali istituti di cultura archeologica”.

La pagina della Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia
La pagina della Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia

Neanche dieci anni dopo, nel 1897, sarà inaugurato il Museo Topografico voluto dal Milani, che illustrava in maniera sistematica la storia etrusca attraverso gli oggetti della cultura materiale e la ricostruzione accurata dei loro contesti di provenienza. Nell’introduzione alla guida del museo del 1898 Milani stesso fa riferimento al sangue che gli etruschi avrebbero dato tanto per la civiltà romana quanto per quella del Risorgimento toscano.

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Alcune pagine della guida del 1898, con il testo del Milani e le immagini dell’allestimento delle sale etrusche

Il profondo legame tra la riscoperta della storia degli Etruschi e il neonato sentimento di unità nazionale in casa Savoia è nettamente percepibile anche nelle scelte di gusto intraprese dai reali per la decorazione della loro dimora. Il gabinetto di Carlo Alberto nel castello di Racconigi (1834) costituisce infatti un significativo esempio del gusto classicheggiante che, già dalla fine del secolo precedente, aveva popolato l’immaginario di pittori e decoratori con figure “all’etrusca”, tratte da quello che all’epoca era il principale veicolo delle iconografie classiche: i vasi attici figurati rinvenuti nelle tombe etrusche.

il "gabinetto etrusco" nel castello di Racconigi (Photo credit http://www.ilcastellodiracconigi.it)
Il “gabinetto etrusco” nel castello di Racconigi (Photo credit http://www.ilcastellodiracconigi.it)

Così il popolo etrusco, celebrato come predecessore di quello italiano nei decenni finali dell’Ottocento dalle arti come dai versi di Carducci (la “prima gente” di Avanti, avanti, in Giambi ed Epodi), nello stesso periodo conosceva anche a Firenze la consacrazione ufficiale del suo tempio nel Palazzo della Crocetta, che ne conservava le tracce tangibili.

18/2/1743: le collezioni dei Medici si legano per sempre a Firenze

Se Firenze ha potuto mantenere sino ad oggi intatto il patrimonio di opere d’arte accumulato nei secoli, a partire dalle collezioni di Lorenzo il Magnifico, lo deve all’ultima discendente della famiglia Medici, Anna Maria Luisa, morta il 18 febbraio del 1743.

La statua dell'Elettrice posta dietro le Cappelle Medicee (photo credit http://curiositadifirenze.blogspot.it)
La statua dell’Elettrice posta dietro le Cappelle Medicee (photo credit http://curiositadifirenze.blogspot.it)

Ed è soltanto grazie alla lungimirante volontà di questa principessa se la Chimera è ancora l’opera n. 1 del Museo Archeologico, e se l’Arringatore, la Minerva, la testa di cavallo Medici e l’Idolino sono ancora insieme nelle sale del Palazzo della Crocetta.

I grandi bronzi appartenuti alle collezioni medicee
I grandi bronzi appartenuti alle collezioni medicee

Anna Maria Luisa era l’unica figlia del Granduca Cosimo III; nota come Elettrice Palatina, perché vedova di Giovanni Carlo Guglielmo, principe elettore del Palatinato, l’ultima Medici lasciò per testamento tutte le collezioni della famiglia allo stato toscano, legandole indissolubilmente alla propria città d’origine, dove trascorse gli ultimi decenni della sua vita, dopo la morte del marito avvenuta nel 1716. Sebbene il padre Cosimo si fosse adoperato per far accettare in Europa la successione di una donna alla morte del suo ultimo erede maschio, il figlio Giangastone, Inghilterra, Francia, Austria e Paesi Bassi stabilirono che l’eredità sarebbe stata dell’Infante di Spagna Carlo, figlio di Filippo V. Nel 1737, quando Giangastone morì, Carlo, già padrone del regno di Napoli, fu indotto a cedere il titolo granducale della Toscana a favore del duca Francesco III Lorena; Anna Maria Luisa ereditò invece i beni mobili, le collezioni e i possedimenti della famiglia. Il 31 ottobre del 1737 la principessa stipulò con i nuovi padroni di Firenze il cosiddetto “patto di famiglia“, nel quale si stabiliva che, dopo la sua morte, niente delle collezioni potesse essere allontanato dalla città, dove doveva rimanere “per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri“.

Ritratto di Anna Maria Luisa Medici (photo credit http://www.toscanamedianews.it)
Ritratto di Anna Maria Luisa Medici (photo credit http://www.toscanamedianews.it)

Ma un altro dettaglio lega la storia delle collezioni archeologiche fiorentine e quella dell’Elettrice Palatina: quando Francesco III divenne successore nel Granducato vi inviò come governatore il proprio precettore, il principe di Craon.

La facciata del Palazzo della Crocetta rivolta verso il giardino
La facciata del Palazzo della Crocetta rivolta verso il giardino

E sapete quale fu la sede da lui prescelta per insediarsi in città? proprio il Palazzo della Crocetta, quello che, poco più di un secolo dopo, sarà scelto per ospitare il Museo Egizio ed il Museo Etrusco, e nelle cui sale ancora oggi si pavoneggia la Chimera!

Il Museo Archeologico Nazionale di Firenze durante la Seconda Guerra Mondiale

In un post precedente vi abbiamo raccontato la situazione di Firenze e del Patrimonio Archeologico toscano alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questo post invece approfondiamo la situazione del Museo Archeologico Nazionale di Firenze durante il Conflitto.

Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale sorprese il Museo Archeologico Nazionale di Firenze nel bel mezzo di un riordino totale delle sue collezioni: fin dal 1925 infatti era stato approvato un progetto per il suo ampliamento e riallestimento il cui nodo centrale era costituito dall’acquisto del Palazzo degli Innocenti prospiciente piazza della SS. Annunziata e via G. Capponi. L’atto di compravendita e il passaggio al demanio statale dell’immobile erano stati decisi e avviati verso la fine degli anni ’30 del Novecento. Con l’inizio della Guerra, però, si bloccò tutto…

Lettera del Minto del 1945 in cui si fa il resoconto dei danni occorsi al Museo Archeologico di Firenze durante la guerra
Lettera del Minto del 1945 in cui si fa il resoconto dei danni occorsi al Museo Archeologico di Firenze durante la guerra

Il Museo subì lo stesso destino di tutti i musei italiani, archeologici e non: le sue collezioni furono riparate in luoghi ritenuti sicuri e il museo stesso fu chiuso al pubblico, anche se fu mantenuto il servizio di vigilanza. Nello specifico, le collezioni archeologiche furono nascoste nei sotterranei del Museo, mentre i Grandi Bronzi, Chimera, Minerva, Arringatore e Idolino di Pesaro, furono trasportati alla Villa Medicea di Poggio a Caiano, che per tutta la durata della Guerra fu utilizzata come deposito di sculture d’arte antica e rinascimentale provenienti, oltre che dall’Archeologico, anche dagli Uffizi e dal Bargello.

L’agosto del 1944 è cruciale per Firenze. Anche il Museo Archeologico rimane coinvolto negli scontri che seguono alla Battaglia di Firenze tra Patrioti, supportati dagli Alleati, e Tedeschi aiutati dai Fascisti. Tuttavia, nonostante quei giorni convulsi, l’edificio riportò pochi danni, prodotti sia dallo spostamento d’aria conseguente ai bombardamenti aerei, che fece esplodere alcuni vetri, sia dalla caduta di proiettili d’artiglieria.

Una lettera che risente ancora dell’allarme e della concitazione degli eventi, firmata dal Soprintendente Antonio Minto e indirizzata al Ministro dell’Istruzione Pubblica, racconta però un episodio di cui il museo fu, suo malgrado protagonista. Racconta infatti il Minto, in una lettera datata 16 agosto 1944 (conservata nell’Archivio Storico della Soprintendenza Archeologica Toscana), che l’edificio “fu oggetto di alcune perquisizioni da parte di squadre armate di patrioti, essendo corsa nel vicinato la falsa voce che nel museo si trovavano nascosti elementi fascisti repubblicani che sparavano dall’alto in direzione di Via della Colonna“. Il Minto racconta che nel corso di un primo sopralluogo, l’11 agosto, si riscontrò che in effetti nessuno poteva aver sparato dall’edificio, né dal tetto. Ma siccome alcuni abitanti di via Laura, forse per deviare le indagini, suggerisce il Minto, continuavano a sostenere che colpi d’arma da fuoco partivano dal Museo o dall’annesso giardino, il 12 agosto il primo custode Carlo Fabiani fu interrogato, per scoprire se nascondesse franchi tiratori all’interno della struttura. Egli fu comunque subito rilasciato, perché non risultò in alcun modo coinvolto.

Civili si sporgono per verificare la presenza di tedeschi o franchi tiratori. Credits Firenze in guerra
Civili si sporgono per verificare la presenza di tedeschi o franchi tiratori. Credits Firenze in guerra

Gli spari dei franchi tiratori continuavano a piovere su via della Colonna, per cui il 13 agosto il museo fu preso d’assalto da una squadra di patrioti, la porta della Soprintendenza in via della Pergola fu sfondata e si innescò una sparatoria che produsse alcuni danni alle finestre e, riporta sempre il Minto, “ai monumenti del Museo Egizio al primo piano“. Fu condotto un esame minuto in ogni singola sala, dalla soffitta agli scantinati, e fu chiaro che nessuno in alcun modo poteva essere penetrato all’interno della struttura e che pertanto nessun colpo di arma da fuoco poteva essere stato sparato dall’interno del museo. Ancora il giorno dopo, un’altra squadra si presentò al museo per verificare la denuncia degli abitanti di via della Pergola che denunciavano nuovamente la presenza di franchi tiratori. Seguì un nuovo sopralluogo, una nuova perquisizione, che ancora una volta dimostrò l’estraneità del museo ai fatti. Ma a quest’ultimo sopralluogo ne seguì un altro, in via Laura: ed è qui che finalmente furono stanati e arrestati i franchi tiratori.

Questo è l’unico episodio che vede protagonista il Museo Archeologico durante la Guerra. Quanto alle opere, esse non subirono danni: le collezioni riparate nei magazzini infatti restarono al sicuro sia dalle esplosioni, sia dalle depredazioni che numerose si registrarono a scapito del Patrimonio artistico fiorentino. I Grandi Bronzi, riparati nella villa medicea di Poggio a Caiano, furono miracolosamente risparmiati dalle depredazioni tedesche. Dalla villa i Nazisti in ritirata avevano portato via ben 58 casse di sculture, tra cui il San Giorgio e il Marzocco di Donatello, il Bacco di Michelangelo e anche una lunga serie di sculture antiche degli Uffizi. Una fortuna, dunque, che Chimera, Minerva, Arringatore e Idolino non siano sembrati di gran valore e quindi degni di essere trafugati…

I Grandi Bronzi del Museo Archeologico Nazionale di Firenze furono riparati durante la Guerra nella Villa Medicea di Poggio a Caiano
I Grandi Bronzi del Museo Archeologico Nazionale di Firenze furono riparati durante la Guerra nella Villa Medicea di Poggio a Caiano

Alla fine della Guerra, bisogna contare i danni, con l’aiuto degli Ufficiali della MFAA (Monuments, Fine Arts and Archives), i Monuments Men al seguito dell’esercito Alleato: il Museo di Firenze ha subito relativamente pochi danni, che comunque hanno un costo che si va a sommare ai lavori già in atto prima dell’inizio della guerra per il riallestimento. Passeranno 5 anni prima che il Museo possa riaprire al pubblico con il nuovo allestimento che aspetta dal 1925. Ma questo ve lo racconteremo nella prossima puntata…

Firenze e il patrimonio archeologico toscano alla fine della II Guerra Mondiale

Si sta concludendo il 2014, 70° anniversario della distruzione dei ponti di Firenze e della Battaglia, e liberazione, del capoluogo toscano, nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Ripercorriamo quei momenti guardandoli da una prospettiva particolare: il salvataggio del patrimonio culturale, in particolare archeologico.

L’estate del 1944 fu drammatica e convulsa per Firenze: la distruzione dei Ponti sull’Arno e dei quartieri medievali accanto a Ponte Vecchio, unico risparmiato dalle mine tedesche, nella notte del 3 agosto, e a seguire la Battaglia di Firenze, tra Patrioti e Tedeschi dopo l’arrivo degli Alleati, segnò e colpì al cuore i Fiorentini. 70 anni son passati da quegli eventi e la città li ha voluti ricordare attraverso alcune manifestazioni tra cui una mostra ora in corso a Palazzo Medici Riccardi che vi invitiamo a visitare (fino al 6 gennaio 2015).

per il salvataggio delle opere d'arte intrasportabili di Firenze viene predisposto un sistema di protezione che cerchi di contrastare il più possibile i danni da eventuali esplosioni. Credits Firenze in Guerra https://www.facebook.com/Firenzeinguerra/photos/a.662482530454178.1073741836.660271774008587/851174018251694/?type=3&theater
per il salvataggio delle opere d’arte intrasportabili di Firenze viene predisposto un sistema di protezione che cerchi di contrastare il più possibile i danni da eventuali esplosioni. Credits Firenze in Guerra https://www.facebook.com/Firenzeinguerra/photos/a.662482530454178.1073741836.660271774008587/851174018251694/?type=3&theater

A Firenze più che altrove la guerra comportò il problema del salvataggio delle opere d’arte e del Patrimonio Culturale: era già noto il rischio di distruzione di monumenti e di furto di opere d’arte e il Ministero dell’Educazione Nazionale si era prodigato facendo sì che le Soprintendenze sul territorio svuotassero i propri musei allestendo dei depositi in ville e castelli fuori dalla città e facendoli controllare periodicamente. Anche a Firenze intervennero i “Monuments Men“, ufficiali dell’esercito Alleato dediti proprio al salvataggio delle opere d’arte, guidati da Frederick Hartt, che ha lasciato viva testimonianza del suo lavoro ne “L’Arte fiorentina sotto tiro“, un racconto appassionato della sua esperienza. Ma Hartt nel suo libro si occupa del patrimonio storico-artistico e dei monumenti. Per sapere cosa successe durante la Guerra e subito dopo al Patrimonio archeologico della Toscana e al Museo Archeologico Nazionale di Firenze abbiamo dovuto interpellare l’Archivio storico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Ecco cosa abbiamo scoperto.

In una lettera del 4 ottobre 1944 indirizzata al Ministero della Pubblica Istruzione – Direzione Generale Antichità e Belle Arti, il Soprintendente Antonio Minto fa il punto della situazione. Anche la Soprintendenza alle Antichità d’Etruria, all’arrivo a Firenze degli Alleati, si era messa in contatto con il Monuments Man Hartt, fornendogli un elenco di tutte le raccolte pubbliche e private, dei monumenti e delle zone archeologiche più importanti per aver notizia di eventuali danni e distruzioni nei territori della Toscana e dell’Umbria.

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La richiesta di collaborazione firmata da Hartt e la relazione con l’elenco dei danni al patrimonio archeologico toscano – Archivio Storico SBAT

Già il 4 settembre giungeva un elenco dei danni ai monumenti etruschi in toscana. In generale i danni al Patrimonio Archeologico e alle collezioni non furono gravi: le collezioni museali, in particolare, si erano salvate perché ricoverate in depositi e località sicure durante la guerra. Apprendiamo dalla relazione che le mura etrusco-romane di Saturnia furono pesantemente danneggiate dalle bombe mentre la porta all’Arco delle mura etrusche di Volterra, che i Tedeschi volevano minare e far saltare, fu risparmiata all’ultimo momento grazie all’intervento delle autorità locali. Il museo di Chiusi subì danni rilevanti nel corso di un tremendo bombardamento della città, così come il museo di Arezzo, la cui collezione paleontologica fu in parte distrutta dal crollo del Campanile della chiesa di San Bernardo e il cui anfiteatro subì danni. La collezione archeologica invece, ricoverata in parte a Firenze, rimase intatta. A Firenze, il Palazzo della Crocetta, sede del Museo Archeologico, ebbe pochi danni durante la Battaglia di Firenze, anche se subì l’assalto dei Patrioti nei giorni 12-14 agosto perché credevano vi fossero dei franchi tiratori fascisti all’interno, come racconta, in un urgente rapporto del 16 agosto, l’allora soprintendente Antonio Minto. Le collezioni rimasero intatte: erano infatti stati murati nei sotterranei i materiali archeologici e la collezione numismatica e glittica medicea e granducale, mente i Grandi Bronzi, Chimera, Minerva, Arringatore e Idolino di Pesaro, erano stati ricoverati nella villa Medicea di Poggio a Caiano che fu quasi del tutto risparmiata dalle depredazioni tedesche.

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Telegramma dal Ministero dell’Istruzione Nazionale alla Soprintendenza alle Antichità: “Prego inviare massima urgenza materiale grafico et fotografico disponibile/monumenti et opere arte danneggiate” – Archivio Storico SBAT

La lettera del 4 ottobre redatta dal Soprintendente Minto rispondeva ad uno dei tanti solleciti inviati dal Ministero della Pubblica Istruzione fin dal suo insediarsi, per rendersi conto dell’effettiva entità dei danni occorsi al Patrimonio culturale e ai fondi da stanziare per i restauri. Ma, per altri versi, la salvaguardia del patrimonio interessava anche al precedente Ministero dell’Educazione Nazionale, che in data 3 maggio 1944 aveva predisposto un ufficio stampa che assicurasse la più intensa ed efficace divulgazione sui quotidiani dei danni arrecati dalla “barbarie nemica” (cioè dagli Alleati) sui monumenti e nel luglio 1944 predispone la catalogazione dei danni di guerra con un duplice schedario topografico, per i monumenti e per i reperti mobili. Quale che fosse la parte politica al potere e il nemico da combattere (da quando il 23 luglio 1943 Mussolini fu destituito), i funzionari del Ministero ebbero sempre a cuore la protezione e la salvaguardia del Patrimonio. Più volte i Monuments Men ebbero modo di constatare quest’attitudine che più che un lavoro era stata vissuta come un impegno sociale, una vera vocazione.

Lettera di congratulazioni di Ranuccio Bianchi Bandinelli ai funzionari delle Soprintendenze
Lettera di congratulazioni di Ranuccio Bianchi Bandinelli ai funzionari delle Soprintendenze, 1946 – Archivio Storico SBAT

L’interesse per la salvaguardia del Patrimonio Archeologico e storico-artistico all’indomani della Guerra è una priorità per il Ministero della Pubblica Istruzione che ordina una ricognizione volta a verificare le opere d’arte mancanti in seguito alle distruzioni e alle trafugazioni. Negli anni immediatamente successivi alla Guerra molti cantieri di restauro sono avviati e portati a termine. In una circolare del 19 dicembre 1946 il Direttore Generale alle Antichità e Belle Arti Ranuccio Bianchi Bandinelli fa i complimenti ai Soprintendenti per il lavoro svolto di restauro dei materiali e di riassetto dei musei e li sprona ad andare avanti. I complimenti arrivano anche dall’Estero, dove viene riconosciuto l’impegno dell’Italia nel restauro e nel recupero del Patrimonio archeologico e storico-artistico. Nel 1946 al Metropolitan Museum di New York si tiene una mostra dedicata proprio ai danni al Patrimonio in Italia per via della Guerra; un’altra mostra, a Firenze, nel 1947, è dedicata a monumenti e opere d’arte danneggiate alla guerra e ai restauri, con lo scopo “di dare la più ampia dimostrazione del lavoro italiano in questo campo“.

In questo clima di ottimismo per il recupero delle opere d’arte, anche grazie alla restituzione dei capolavori trafugati dai nazisti, si inseriscono, quali voci fuori dal coro, alcuni studiosi tedeschi che vorrebbero negare invece tali restituzioni: ad essi risponde nel marzo 1950 una lettera di protesta da parte dell’Accademia dei Lincei, che viene sottoscritta anche dai funzionari della Soprintendenza alle Antichità d’Etruria. La restituzione delle opere d’arte rubate è un problema fortemente sentito nell’immediato Dopoguerra. A Firenze nel 1949 è attivo un Comitato per le Opere d’Arte rubate del quale fa parte, per conto della Soprintendenza archeologica fiorentina, Guglielmo Maetzche.

Negli anni successivi alla Guerra, dunque, la situazione torna lentamente alla normalità. Il Museo Archeologico Nazionale di Arezzo riapre nel 1951, mentre quello di Firenze, che era nel bel mezzo di un epocale riallestimento quando lo sorprese la guerra, riapre finalmente nel 1950. Ma questa storia ve la raccontiamo la prossima volta…

24 Ottobre 130 d.C.: Antinoo annega nel Nilo

Al secondo piano del palazzo della Crocetta, nel Museo delle Antiche Collezioni, si conserva quello che a lungo è stato ritenuto l’unico esemplare bronzeo noto di ritratto di Antinoo, il giovane originario della Bitinia amato dall’imperatore Adriano (117-138 d.C.), il colto e raffinato imperatore filelleno. Le fonti antiche, talvolta di parte e confuse, sono concordi nel collocare alla fine del mese di ottobre (forse proprio il 24) del 130 d.C. la sua prematura morte, avvenuta per annegamento nelle acque del Nilo.

20141024_115254Dal mese di agosto al mese di novembre l’imperatore, che amava viaggiare attraverso le province dell’impero accompagnato dal suo favorito, si trovava in Egitto; qui, nel corso di una navigazione lungo le acque del Nilo, presso Ermopoli il giovane Antinoo incontrò la morte a poco meno di venti anni. Almeno tre sono le versioni riguardo alla sua scomparsa: una disgrazia, un sacrificio oppure un suicidio, una sorta di autoimmolazione agli dei per favorire la sorte di Adriano.

Se non possiamo essere certi sul giorno della morte, è pur vero che essa avvenne in concomitanza con le commemorazioni della morte di Osiride, il 24 ottobre, appunto, e che in quel giorno furono resi al giovane gli onori funebri. Secondo una tradizione egizia già testimoniata da Erodoto, chi moriva annegato nel Nilo aveva diritto a ricevere onori quasi divini; Adriano, oltre ad associare la sua figura a quella del dio egizio morto e risorto dal Nilo, ne fece immediatamente l’oggetto di un culto eroico, che si diffuse in tutte le province dell’impero: in Grecia e nelle province orientali il culto assunse addirittura forme sincretiche, vedendo Antinoo di volta in volta venerato coma Adone, Apollo, Dioniso o Pan. In suo onore l’imperatore fece erigere una nuova città, di fronte ad Ermopoli, che da lui prendeva il nome, Antinoe.

20141024_115310Subito dopo la morte del giovane amasio di Adriano fu creato il tipo ritrattistico che lo caratterizza, con il mento arrotondato, la bocca carnosa, il naso dritto e soprattutto la massa compatta ed apparentemente disordinata di riccioli, lunghi sulla fronte e sulla nuca. La folta chioma, una della qualità caratterizzanti degli eroi morti anzitempo anche in Omero, ombreggia il volto pensoso e malinconico del giovane, reclinato di lato.

20141024_115351L’esemplare dei Musei Archeologici Fiorentini è oggi identificato con una copia o calco da originale, eseguito probabilmente all’epoca di Cosimo I da una bottega fiorentina (sicuramente prima del 1574, quando compare negli inventari di Palazzo Vecchio). La sua realizzazione si spiega con la rinnovata fortuna di cui il tipo ritrattistico del giovane bitinio godette nei primi decenni del Cinquecento, in particolar modo all’interno dei circoli intellettuali dediti alle speculazioni teosofiche ed esoteriche.

Il mito di Antinoo e la fortuna che egli ebbe dal Rinascimento in avanti tornano con forza nel Neoclassicismo, quand’egli diventa il simbolo di una bellezza senza tempo e il suo ritratto è desiderato da tutti i grandi collezionisti di antichità, ma culminano nel Novecento nel racconto che di lui fa lo stesso imperatore Adriano attraverso la penna di Marguerite Yourcenar. Leggere le “Memorie di Adriano” offre la possibilità di cogliere con freschezza la bellezza disinvolta del giovane amante dell’imperatore, e di respirare, attraverso la sua storia, le atmosfere dell’Impero Romano del II secolo d.C.: un impero tanto grande, tanto vario e tanto bizzarro, nel quale era possibile che un giovane cortigiano diventasse un dio e a lui fosse dedicata una città nel luogo in cui era morto. Una città che negli anni ’30 del Novecento è stata oggetto di scavi archeologici dell’Istituto Fiorentino di Papirologia. I reperti, e tra questi principalmente i tessuti, ci restituiscono la vitalità di una città romana dell’età imperiale e tardoimperiale. Ma di Antinoe, della sua storia, degli scavi e dei suoi tessuti, che sono esposti al Museo Egizio di Firenze vi racconteremo un’altra volta…

19/8/14: Muore a Nola Ottaviano Augusto

L’ultimo giorno della sua vita, informandosi a più riprese se il suo stato provocava già animazione nella città, chiese uno specchio, si fece accomodare i capelli, rassodare le gote cascanti e, chiamati i suoi amici, domandò se sembrava loro che avesse ben recitato fino in fondo la farsa della vita, poi aggiunse anche la conclusione tradizionale: «Se il divertimento vi è piaciuto, offritegli il vostro applauso e tutti insieme manifestate la vostra gioia.»
Poi li congedò tutti quanti e […] improvvisamente spirò tra le braccia di Livia, dicendo: «Livia, fin che vivi ricordati della nostra unione. Addio!»
Morì […] quattordici giorni prima delle calende di settembre, alla nona ora del giorno, all’età di settantasei anni meno trentacinque giorni.

Così Svetonio (II, 99-100) racconta, circa un secolo dopo lo svolgimento dei fatti, la morte dell’imperatore Augusto, di cui proprio oggi ricorre il bimillenario. Dopo 41 anni di regno,  il più lungo in tutta la storia dell’impero romano, Augusto morì mentre era in viaggio, a Nola, il 19 agosto del 14 d.C.

Anche se le celebrazioni ufficiali nella Capitale sono cominciate già dal 21 aprile di quest’anno (giorno del Natale di Roma), ci piace oggi rendere omaggio alla memoria del primo imperatore di Roma con la presentazione di uno dei pochi reperti a lui legati appartenenti alle collezioni del MAF ed esposti. Si tratta di un cammeo che appartenne alla vastissima collezione di gemme e cammei mediceo-granducale, oggi esposto nel Monetiere.

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Cammeo raffigurante Augusto

Il cammeo è realizzato in onice, bianco su un fondo cotognino e misura 4,6 x 3,9 cm.

Augusto è rappresentato di profilo, con indosso la corona civica e la testa velata. La corona civica, di quercia, costituiva la seconda onoreficenza militare romana in ordine di importanza ed era attribuita a chi avesse salvato la vita di un altro cittadino romano (ob civem servatum), che così rimaneva legato per sempre con un rapporto clientelare al proprio salvatore. Ad Augusto fu conferita dal Senato, così come il titolo di Augusto. Il manto portato sulla testa allude probabilmente al fatto che Augusto è qui rappresentato in veste di pontefice massimo, la più importante carica religiosa dello stato romano che assunse a partire dal 12 a.C. Era questo il tipo di ritratto preferito da Augusto: come togatus intento al sacrificio o alla preghiera; attraverso questa rappresentazione, infatti, egli intendeva interpretare la pietas, ovvero la devozione agli dei, uno dei cardini della sua politica di rinnovamento culturale e dello stato romano: un rinnovamento che, volendo correggere la crisi dei valori morali che aveva caratterizzato gli ultimi decenni della Repubblica, voleva riportare in auge gli antichi valori, a partire da quelli religiosi. Raffigurazioni di Augusto velato capite sono diffusissime in tutto l’Impero, dai ritratti su statua e sui rilievi (anche di importanti monumenti, come l’Ara Pacis Augustae a Roma) alle effigi su monete e, come nel nostro caso, sui cammei. Il cammeo della collezione Medicea, per il tipo ritrattistico dell’imperatore, è da riferire agli ultimi anni di regno.

Durante il suo regno Augusto si servì prevalentemente del suo incisore di fiducia, Dioskourides, di origine probabilmente asiatica, che si fece interprete e portatore dello stile e dei messaggi propagandistici imposti dal regime, che trovavano nelle gemme uno dei loro canali privilegiati di circolazione.

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Cammeo raffigurante Livia

Un altro cammeo, vicino al cammeo di Augusto, nella sala del Monetiere del Museo, è particolarmente legato alla figura del primo imperatore: il cammeo rappresenta Livia, moglie di Augusto e la cui effigie interpreta, nell’ideologia augustea, il ruolo di matrona modello, testimonianza di assoluta moralità, anch’essa in linea, dunque, con la politica di rinnovamento culturale voluta e perseguita dal princeps. Di lei narrano le fonti che fu molto amata dal popolo, assolutamente composta nel suo apparire e nel suo comportamento in pubblico. A lei, come del resto agli altri appartenenti alla famiglia imperiale, furono dedicate statue e rilievi, e il suo ritratto rivela sempre la donna incarnazione delle virtutes femminili delle matronae romane: virtù che si erano perse nel corso degli ultimi tempi della Repubblica e che tornarono in auge proprio in età augustea grazie all’esempio dato da Livia. Nel cammeo è anch’essa rappresentata velata e col capo cinto da una corona: perfetto contraltare del suo consorte.

Il Monetiere Mediceo e Granducale propone una serie molto ricca e variegata di gemme e cammei di età romana: dai ritratti di imperatori a personaggi mitologici, come Ercole, a divinità a scenette di genere… è un piacere osservarli tutti nei minimi dettagli: ogni gemma è un piccolo capolavoro che vi invitiamo a scoprire, per cogliere l’accuratezza dell’intaglio e del disegno, per tentare di riconoscere i personaggi e le situazioni rappresentate. L’arte della glittica, cioè la capacità di intagliare pietre preziose, ebbe grande successo e diffusione nella Roma imperiale, e non ha mai smesso di affascinare le generazioni successive. Così non deve stupire se i Medici nella loro collezione di antichità dedicarono particolare interesse a gemme e cammei: quelli esposti ora al Monetiere sono solo una piccola parte, ma significativa, della raccolta che i Signori di Firenze riuscirono a mettere da parte.

Un anno con Archeotoscana

Un anno fa in questi giorni vedeva la luce Archeotoscana. Non solo il blog, ma anche la pagina facebook della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana e l’account twitter del Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Nasceva, insomma, un nuovo modo per comunicare con voi tutti le attività della soprintendenza e la ricchezza del patrimonio archeologico toscano.

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L’idea era stata quella di aprire i musei e le aree archeologiche statali della Toscana al pubblico della rete e dei social network, nell’ottica di dare un’immagine di luoghi vivi e vitali, non semplici contenitori di oggetti, ma fucine di idee, di attività, di coinvolgimento per il pubblico. Da qui dunque la creazione di un sistema di comunicazione che sfruttando la piattaforma blog e le potenzialità dei social media per amplificare le notizie facesse uscire le attività della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana fuori dai soliti canali di comunicazione e informazione per andare a parlare con una fetta di pubblico più ampia e, chissà, magari diversa da quella che solitamente frequenta i musei. Dall’altra parte, però, la nascita di un sistema di comunicazione di questo tipo, in Italia tutto sommato abbastanza nuovo per musei archeologici statali (esistevano già da qualche mese i blog del Museo Archeologico Nazionale di Venezia e del Museo Archeologico Nazionale delle Marche) e sicuramente nuovo per una Soprintendenza, è stato guardato con attenzione (e accolto con favore) da chi, nel settore dell’archeologia, è attento anche alle tematiche della comunicazione.

Il compleanno del blog di Archeotoscana si accompagna ad un altro bel risultato: abbiamo infatti da poco superato i 100 post, il che vuol dire che in un anno abbiamo dato conto di numerose attività, dando notizia degli eventi, raccontando i più interessanti, e poi raccontando alcune storie legate alle collezioni, agli oggetti, ai musei. Perché crediamo che i musei debbano raccontare se stessi, a 360°.

Ma perché non rimanga tutto un’azione fine a se stessa, abbiamo sviluppato allo stesso tempo una rete social. Il blog non è altro che uno strumento di comunicazione accanto agli altri canali (facebook, twitter e Pinterest), e tutta la rete insieme realizza la comunicazione.

Il primo anno è stato positivo, in termini di attività e di risposte da parte del pubblico, attivo soprattutto sui social e in particolare su twitter. Ora vogliamo fare di meglio: vogliamo navigare nella direzione di coinvolgere sempre di più tutti voi che ci seguite, e di creare occasioni in cui musei reali e la rete virtuale si possano fondere. Qualche evento è già stato fatto, come l’Invasione Digitale al Museo Archeologico Nazionale di Firenze dello scorso 3 maggio, o come la Giornata Nazionale delle Famiglie al Museo del 13 ottobre 2013, organizzata al Museo Archeologico Nazionale di Arezzo e di Firenze, che è stata promossa esclusivamente tramite i social media. Vogliamo coinvolgere sempre di più tutti voi chiedendovi di condividere con noi le vostre esperienze (e a tal proposito vi ricordiamo che nei Luoghi dell’Archeologia statali della Toscana si possono scattare fotografie senza il flash) e aiutandoci a migliorare.

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15/12/1980: i Bronzi di Riace esposti a Firenze

È di pochi giorni fa la notizia del trasferimento dei Bronzi di Riace dal palazzo del Consiglio Regionale della Calabria, dove erano “provvisoriamente” collocati (in una poco elegante posizione supina) dal 2009, alla loro definitiva sede nel Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. È di ben 33 anni fa, invece, l’inaugurazione di una mostra fiorentina che suscitò grande clamore: dopo un ricovero presso il Centro di Restauro di Firenze durato ben cinque anni, i Bronzi venivano mostrati al pubblico in tutto il loro ritrovato splendore presso il Museo Archeologico.

La coda fuori dall'ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, 1980-1981. Foto: Archivio Fotografico SBAT
La coda fuori dall’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, 1980-1981. Foto: Archivio Fotografico SBAT

La mostra, che in sei mesi vide passare quattrocentomila visitatori, fu in grado di suscitare la curiosità della folla oltre che degli studiosi e specialisti del settore.

La folla davanti all'ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Firenze per la mostra "I Bronzi di Riace". Foto: Archivio fotografico SBAT
La folla davanti all’ingresso del Museo Archeologico Nazionale di Firenze per la mostra “I Bronzi di Riace”. Foto: Archivio fotografico SBAT

Allestita negli ambienti del Salone del Nicchio, consentì di riaprire momentaneamente l’accesso ad un settore del Museo che era stato travolto dall’alluvione, negli anni poi saltuariamente utilizzato per esibizioni temporanee prima del definitivo ripristino nel 2006. Come alcuni tra gli assistenti alla vigilanza ancora ricordano, lunghe code di visitatori serpeggiavano davanti all’ingresso su Piazza SS. Annunziata per vedere i miracoli compiuti nei laboratori di restauro fiorentini.

I Bronzi di Riace nel loro allestimento in mostra al Salone del Nicchio del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, 1980 - Foto: Archivio Fotografico SBAT
I Bronzi di Riace nel loro allestimento in mostra al Salone del Nicchio del Museo Archeologico Nazionale di Firenze, 1980 – Foto: Archivio Fotografico SBAT

Le due sculture, rinvenute nel 1972 e a più riprese restaurate e studiate, furono trasportate a Firenze nel gennaio del 1975, dove furono affidate alle cure dei due restauratori Renzo Giachetti ed Edilberto Formigli. Più di un anno fu necessario per completare la pulitura, mentre i dati tecnici relativi allo spessore, ai difetti di fusione ed al riempimento interno venivano acquisiti tramite l’uso delle radiografie. Successivamente i restauratori si resero conto che per arrestare i processi di corrosione si rendeva necessario lo svuotamento completo delle statue. Attraverso piccole aperture sulla testa delle sculture, tenute sospese, tramite strumenti meccanici appositamente ideati ed un continuo getto d’acqua i restauratori iniziarono lo svuotamento, illuminando l’interno con una piccola sonda. Per poter compiere l’operazione nel 1977 si rese però necessaria l’asportazione dei tenoni, ovvero le colate in piombo che, riempiendo i piedi fino alle caviglie, ne uscivano per poter assicurare le statue alla loro base, e la cui conservazione era necessaria per poter ricostruire l’eventuale collocazione antica dei bronzi.

Un momento dell'allestimento dei Bronzi di Riace a Firenze. Foto: Archivio Fotografico SBAT
Un momento dell’allestimento dei Bronzi di Riace a Firenze. Foto: Archivio Fotografico SBAT

Ultimato lo svuotamento poterono essere completate le operazioni di conservazione e nella primavera del 1980 i bronzi erano pronti per tornare in Calabria. Nell’attesa che fosse ultimata la sala del museo di Reggio cui erano destinati, si decise nell’autunno del 1980 di esporli momentaneamente a Firenze, accompagnati dall’illustrazione delle varie fasi di restauro. Inaugurata proprio il 15 dicembre 1980, l’esposizione si protrasse fino al 24 giugno 1981. Prima di tornare “a casa” i bronzi furono poi esposti fino al 12 luglio anche al Palazzo del Quirinale, dove richiamarono trecentomila visitatori in soli dodici giorni.

L'inaugurazione della mostra "I Bronzi di Riace" a Firenze, 15.12.1980. FOto: Archivio Fotografico SBAT
L’inaugurazione della mostra “I Bronzi di Riace” a Firenze, 15.12.1980. Foto: Archivio Fotografico SBAT

Le operazioni svolte a Firenze valsero alla Soprintendenza Archeologica della Toscana il riconoscimento del premio “Campione d’Italia per la promozione della Cultura e dell’Arte“, per aver reso “attuale l’antico” e fatto riscoprire “nella coscienza dell’uomo i valori perenni di civiltà”.

Il premio conferito alla Soprintendenza Archeologica per il restauro condotto sui Bronzi di Riace. Foto: Archivio Fotografico SBAT
Il premio conferito alla Soprintendenza Archeologica per il restauro condotto sui Bronzi di Riace. Foto: Archivio Fotografico SBAT

Da allora i Bronzi ne hanno fatta di strada; nuovamente restaurati negli anni Novanta, hanno poi atteso a lungo che fosse rinnovata la sala del Museo di Reggio che li ospitava. Oggi, sull’onda di una rinvigorita popolarità, fremono per l’imminente inaugurazione e siccome sono vecchi, sì, ma al passo coi tempi, cinguettano su Twitter…

Una conversazione su Twitter dei Bronzi di Riace
Una conversazione su Twitter dei Bronzi di Riace

15/11/1553: (ri)comincia la storia della Chimera di Arezzo

Era il 15 novembre del 1553 quando, per caso, durante i lavori per la realizzazione di un nuovo bastione nelle mura di Arezzo, “… fu scoperto un insigne monumento etrusco. Si trattava di un leone di bronzo, di grandezza naturale, eseguito in modo elegante e ad arte, feroce nell’aspetto, minaccioso per la ferita che aveva nella zampa sinistra, che aveva le fauci aperte e i peli della giubba eretti e portava sul dorso… la testa di un capro sgozzato… Il nostro Principe [il granduca Cosimo I] comandò che quest’opera così eccellente fosse portata a Firenze…” (così la deliberazione del Comune di Arezzo relativa alla scoperta).

IMG_20131028_163848La scultura, databile al IV sec. a.C., rappresenta la Chimera, il mostro a tre teste (di leone, capra e serpente) generato da Echidna (per metà donna e per metà serpente) e Tifone (mostro capace di incutere timore persino a Zeus), genitori anche della Sfinge, di Cerbero e dell’Idra di Lerna. Secondo la mitologia Chimera dimorava in Licia, dove distruggeva ogni cosa con le fiamme che uscivano dalle sue tre bocche; lì fu stanata e uccisa dall’eroe Bellerofonte, aiutato dal cavallo alato Pegaso. Il mito, così concepito in Grecia, fu conosciuto e rielaborato anche in Etruria, da dove provengono, oltre alla monumentale scultura, diverse rappresentazioni del mostro, tra cui anche un bronzo di piccole dimensioni esposto oggi nelle sale del Museo.

La Chimera di Arezzo, grande bronzo di IV sec. a.C., ed un bronzetto di ??? che raffigura lo stesso soggetto
La Chimera di Arezzo ed il bronzetto che raffigura lo stesso soggetto

Al momento della scoperta il bronzo non si presentava integro, ma, come le fonti e le incisioni dell’epoca attestano, era privo della coda-serpente, di cui fu rinvenuto soltanto un frammento mai restaurato; soltanto nella seconda metà del Settecento fu eseguita l’integrazione, per opera dello scultore Francesco Carradori o del suo maestro Innocenzo Spinazzi (erronea la tradizione che la vorrebbe il restauro eseguito da Benvenuto Cellini, come indicato dal Milani stesso nella guida del museo). La coda fu però reinterpretata, secondo criteri completamente diversi da quelli che guidano oggi le operazioni di restauro, con la testa del serpente che morde il corno della capra mentre nell’originale, probabilmente, il serpente era rivolto in avanti in attacco.

Incisione
Incisione di T. Verkruys  per il “De Etruria Regali” di Th. Dempster, pubblicato nel 1723-1724

Il bronzo, rinvenuto all’interno di una stipe votiva assieme ad altri materiali, costituiva in origine un’offerta al dio Tinia (la divinità etrusca corrispondente a Zeus e Giove) come si ricava dall’iscrizione sulla zampa anteriore destra; presumibilmente faceva parte di un gruppo scultoreo in cui era rappresentato anche Bellerofonte, posto di fronte all’animale.

Il fortuito rinvenimento offrì da subito una straordinaria opportunità di propaganda a Cosimo I, che si fregiava del nome di Granduca d’Etruria: il mostro vinto era la perfetta allegoria di tutte le forze ostili che i Medici avevano dovuto e saputo domare per costruire il proprio regno, e per questo la statua fu insignita subito della sede più prestigiosa: Palazzo Vecchio, centro del potere della Signoria e residenza dei Medici. Da lì fu spostata solamente nel 1718, quando per ordine di Cosimo III trovò una nuova collocazione nella Galleria degli Uffizi. Oltre un secolo dopo, nel 1870, al momento della costituzione del Regio Museo Archeologico di Firenze, il direttore Luigi Adriano Milani volle trasferire la statua al primo piano del Palazzo della Crocetta, nella galleria dei bronzi; attualmente la scultura è collocata ancora al primo piano del Museo e condivide il posto d’onore con l’Arringatore e la testa in bronzo da Fiesole, nella sala XV.

In rosso la collocazione della Chimera nel 1912, nella Sala delle Statue e degli Idoli Etruschi, in verde l'attuale
In rosso l’originaria collocazione della Chimera nella “Sala delle Statue e degli Idoli Etruschi”, in verde l’attuale (dalla guida del museo del Milani, del 1912)

Ancora oggi la Chimera, oltre che essere una delle attrattive principali del museo, ne costituisce il logo ed è forse il pezzo che più affascina e diverte i nostri piccoli visitatori. La celebre scultura, inoltre, vanta un’indiscutibile primato: è il n. 1 dell’inventario delle collezioni del Museo!

Dettaglio del n. di inventariosulla zampa posteriore della Chimera
Dettaglio del n. di inventario sulla zampa posteriore della Chimera

4/11/1966: l’Arno esonda e spazza via il Museo Topografico dell’Etruria

Oggi, 4 novembre, si ricorda una delle ricorrenze della storia recente di Firenze più impressa nella memoria dei suoi abitanti: l’alluvione del 1966 è stata un evento talmente eccezionale da condizionare molti aspetti della vita della città negli anni a venire. Chiunque abbia vissuto quel tragico evento porta con sé un ricordo indelebile. Non solo le persone, ma anche i monumenti e gli istituti culturali della città quel giorno furono scossi dall’ondata di acqua e fango. Tra questi il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Questa è la storia di quei terribili momenti e delle conseguenze che ne derivarono: il Museo Archeologico, infatti, dopo quel 4 novembre, non sarà più lo stesso…

Nei giorni fra l’Ottobre e il Novembre del 1966 la zona di Firenze fu colpita da violente e intense precipitazioni. La situazione già difficile precipitò nella notte fra il 3 e il 4 Novembre, quando l’Arno straripò in più punti, inondando il centro di Firenze e molte altre parti della città e della provincia fiorentina. Fu un evento eccezionale ed inaspettato per le sue proporzioni: mai a Firenze l’Arno, sebbene avesse spesso esondato, aveva raggiunto una tale furia.

alluvione
L’Arno esondato visto dal Piazzale Michelangelo

Anche il Museo Archeologico di Firenze venne raggiunto dalle acque melmose e piene di nafta: a essere danneggiate pesantemente furono le collezioni del Museo Topografico dell’Etruria, situato al piano terreno del Museo, dove le acque arrivarono in qualche sala a oltre due metri di altezza, lasciando una coltre di fango oleoso su gran parte di ciò che avevano sommerso e causando moltissimi danni, non solo per la quantità di oggetti danneggiati, ma anche per la distruzione dell’ordine in cui erano esposti e conservati e per la cancellazione di gran parte degli elementi di identificazione diretta. Vennero rovesciate le vetrine poste al centro delle sale, in parte anche trascinate via dalla violenza dell’acqua e caddero i palchetti di alcune delle vetrine collocate lungo le pareti. I reperti colpiti dalla furia delle acque furono danneggiati dalla caduta, per l’immersione in acqua o anche solo a causa della forte umidità; gran parte dei cartellini inventariali si staccarono e andarono perduti, mentre altri pezzi non erano ancora stati inventariati al momento dell’alluvione: in sostanza nel giro di poche ore venne in gran parte distrutto il lavoro paziente e metodico compiuto dagli studiosi sui materiali della civiltà etrusca dalla fine dell’800 in poi.

Le Sale del Museo Topografico alluvionate e il Cortile Romano in una foto del Gennaio 1968
Le Sale del Museo Topografico alluvionate e il Cortile Romano in una foto del Gennaio 1968
Le vetrine del Museo Topografico fotografate dopo l’alluvione.
Le vetrine del Museo Topografico fotografate dopo l’alluvione.

Oltre al Museo Topografico furono completamente sommersi dall’alluvione anche il Laboratorio e l’Archivio Fotografico, luogo che custodiva una documentazione insostituibile. Si procedette pertanto all’immediato tentativo di recupero di tutti i positivi e negativi in esso contenuti: le operazioni di lavaggio e asciugatura delle lastre furono svolte presso il Museo di Fiesole e portarono al recupero di circa il 90% delle lastre.

Il Gabinetto Fotografico dopo l'alluvione
Il Gabinetto Fotografico dopo l’alluvione
Lavaggio delle lastre fotografiche presso il Museo di Fiesole
Lavaggio delle lastre fotografiche presso il Museo di Fiesole

Per procedere a un recupero di tutti i materiali si partì dalla raccolta della documentazione bibliografica, per poi documentare con fotografie la situazione del Museo dopo il passaggio dell’alluvione, scattando fotografie sala per sala e vetrina per vetrina; vennero quindi riordinati gli inventari miracolosamente scampati all’ondata e si costituirono all’interno del museo stesso dei depositi provvisti di deumidificatori pronti a ricevere i materiali archeologici via via estratti dalle sale alluvionate. Le operazioni metodiche di recupero vennero iniziate nella seconda metà del Dicembre 1966 e durarono fino all’inizio dell’estate successiva: i materiali archeologici vennero raccolti come si trovavano e, dopo una sommaria pulizia, confrontati per un primo riconoscimento con gli inventari e le fotografie, per poi essere sistemati, ancora in frammenti e sporchi di fango, nei contenitori collocati nei depositi climatizzati in attesa del restauro. Anche il piccolo laboratorio di restauro della Soprintendenza era stato distrutto con tutte le sue attrezzature; si dovette provvedere quindi a organizzare nuovi locali da adibire a laboratorio fotografico e di restauro per il primo intervento: grazie a lavori urgentissimi la Soprintendenza ai Monumenti rese agibili due grandi saloni all’interno dell’immobile del Palazzo ex Innocenti (già di proprietà del Museo in quanto acquistato a cura di Antonio Minto nel 1942), permettendo così di iniziare i lavori di recupero dei materiali.

Operazioni di recupero dei materiali dopo l’alluvione
Operazioni di recupero dei materiali dopo l’alluvione

Dopo l’alluvione si creò quindi un’unità operativa capace di intervenire da subito sui reperti ceramici, mentre per quelli metallici furono necessarie attrezzature più sofisticate e tempi più lunghi (il restauro degli oggetti metallici e il relativo laboratorio, con annesso laboratorio di analisi fisico-chimiche e radiologico, furono così progettati con calma ed entrarono in funzione alla fine del 1969 in locali diversi da quelli degli altri laboratori). Fondamentale fu il contributo dell’Istituto Centrale per il Restauro di Roma e i finanziamenti messi a disposizione dal ministero per i Beni Culturali: il Laboratorio di Restauro di Firenze riuscì in pochi anni a recuperare quasi completamente i reperti alluvionati. Successivamente gli spazi ricavati nel Palazzo Innocenti divennero inadeguati alle dimensioni dell’operazione di recupero, cui si affiancò subito quella altrettanto importante della catalogazione: fu quindi creato un Centro di Restauro dotato di attrezzature specialistiche nella sede del Palazzo Bruciato, dove agli operatori della Soprintendenza furono affiancate anche ditte esterne. Sarà proprio questo Centro a restaurare i due Bronzi di Riace fra il 1975 e il 1980. In seguito il Centro trovò una sede più adeguata in via Manni, dove è rimasto fino al 2002, per essere infine trasferito nell’attuale sede di largo del Boschetto su via di Soffiano.

Dopo l’alluvione il Museo Topografico non è più tornato ad essere quello di un tempo: negli anni ‘90 andarono a vuoto vari tentativi di riaprirlo, tra problemi economici e dubbi metodologici e museografici, finchè le sale non vennero definitivamente smantellate per ricavarne uno spazio espositivo per mostre temporanee (oggi vi è ospitata  la mostra “Signori di Maremma”).