“Silvestrem tenui musa meditaris avena”*… La musica e il quotidiano nel mondo antico

*”Intoni sul flauto sottile una melodia silvestre” (Virgilio, Bucoliche, I, 2)

Accompagnare i più banali gesti di ogni giorno con le note della propria musica preferita: niente di più normale per gli umani del terzo millennio, con gli auricolari dello smartphone ben piazzati nelle orecchie. Ma non siamo poi così avanti come la tecnologia ama farci credere… Proprio come nel caso di Titiro, che suona il flauto mentre il bestiame pascola, anche nell’antichità la musica scandiva i ritmi delle giornate: non solo nei luoghi deputati, come il teatro, ma anche durante i banchetti, le cerimonie religiose, durante la terrificante marcia dei soldati in battaglia, quando le note impartivano comandi, infondevano coraggio e coprivano il fragore delle armi.

Dettaglio della decorazione della situla di Plikasna (terzo quarto del VII sec. a.C.), in cui il guardiano accompagna i verri al suono dell’aulòs

In funzione delle loro caratteristiche, gli strumenti (a fiato, a corda o a percussione) si legano intimamente a determinati momenti, attività o culti, a seconda che la musica che producono sia più sfrenata e ritmata o tranquilla e serena. In occasione della Festa della Musica, a cui il Mibact dedica la giornata odierna, vi proponiamo un percorso tra gli strumenti musicali conservati (e rappresentati) nelle collezioni egizie, etrusche e greche del MAF.

Nella sezione egizia sono conservati i resti degli strumenti più antichi del MAF: un’arpa portatile (sono andate perdute le corde che venivano pizzicate), che si suonava tenendola appoggiata su una spalla, e una nacchera, originariamente composta da due braccia in avorio. Utilizzate come sostituzione del battito ritmico delle mani per accompagnare canto e danza, le nacchere ne assumevano spesso la forma, ed erano usate soprattutto nel culto di Hator, la dea vacca protettrice, tra l’altro, proprio della musica e della danza.

Arpa (Nuovo Regno, XVIII dinastia, 1550-1291 a.C.) e nacchera (Nuovo Regno, 1550-1070)
Sistro in bronzo (Epoca Tarda 664 a.C.- 332 a.C.)

Lo strumento che più di ogni altro caratterizza l’immaginario egizio, tuttavia, è forse quello legato al culto di alcune divinità femminili (Iside, Bastet, la dea gatta, o ancora Hator), il sistro: si tratta di uno strumento a percussione in metallo, in cui il suono è prodotto dalle stanghette che, muovendosi, sfregano contro il telaio su cui sono montate.

Mentre per il mondo greco e romano le fonti parlano ampiamente delle musica, e addirittura abbiamo traccia di melodie scritte, come al solito gli Etruschi costituirebbero una grossa lacuna nel nostro sapere se non fosse per le fonti iconografiche e materiali. Gli autori greci e latini ci dicono comunque che accompagnavano con la musica le attività più disparate, come la cucina (e fin qui, per noi, niente di strano…) ma anche la fustigazione dei prigionieri! Quanto agli oggetti reali, al MAF è conservato un esemplare di cornu in bronzo proveniente dal Tumulo dei Carri di Populonia, attualmente non in esposizione; strumento utilizzato soprattutto in ambito militare, sappiamo che poteva essere utilizzato anche durante la caccia e i banchetti. Associato spesso al lituus, un altro strumento a fiato, lungo e dritto con estremità ricurva, impiegato prevalentemente in ambito rituale, divenne presto simbolo del potere politico e militare, e proprio come segnale della posizione sociale ricoperta dal defunto compare anche nella tomba di Populonia.

 

Corno in bronzo da Populonia (VII sec. a.C.)

Come sempre, poi, laddove non sono sufficienti le fonti materiali, ci vengono in soccorso le raffigurazioni. Il doppio aulòs, per esempio, è rappresentato su uno specchio da Palestrina con scena di sacrificio, oltre che su numerose urne a rilievo. A differenza del nostro flauto, termine con cui viene comunemente tradotto, l’aulòs greco ed etrusco era uno strumento che veniva suonato con l’ausilio di un’ancia e l’aria, che veniva trattenuta nelle guance, veniva immessa in maniera continua. La musica cadenzava le processioni e ritmava i diversi momenti dei rituali (soprattutto dionisiaci), come quello in cui si accompagnava all’altare la vittima destinata ad essere sacrificata agli dei.

Specchio in bronzo, fine VI sec. a.C.
Bronzetto di suonatrice di crotali, 490-480 a.C.

Di pari passo con la musica, ovviamente, andava la danza: quella ritmata e sfrenata che veniva accompagnata dal suono dei crotali, per esempio, una sorta di nacchere di cui si faceva uso nei rituali dionisiaci.

Per il mondo greco sono numerose le testimonianze dell’uso degli strumenti musicali: i banchetti e i simposi erano regolarmente accompagnati dal suono dell’aulòs o della lira, lo strumento a corda che usava come cassa di risonanza il guscio di una tartaruga e la cui invenzione, secondo il mito, sarebbe da attribuire al dio Ermes. E sono proprio le coppe, tra le forme vascolari più rappresentative di questi momenti conviviali, che ci restituiscono le scene più vivide:

Da sin.: coppa attica attribuita a Douris con auleta, 480 a.C.; coppa attica del pittore di Antiphon con giovane con lira, 490-480 a.C.; coppa attica del pittore di Euaion con lira, 460-450 a.C.

Infine, altre due rappresentazioni dell’aulòs a tutto tondo, tra quelle conservate al MAF, colpiscono per un dettaglio molto importante: si tratta della statuetta di suonatore di provenienza cipriota, in pietra calcarea, e di un bronzetto romano rappresentatnte un satiro (dove il flauto è integrazione ottocentesca, ma ricostruisce con ogni verosimiglianza l’originale). In entrambe è infatti visibile la phorbeia, ovvero la fascia che serviva a tenere ben saldi i bocchini dello strumento alle labbra mentre le mani erano impegnate a coprirne i fori.

Suonatore di doppio aulòs da Cipro, VI sec. a.C., e bronzetto di satiro, I-II sec. d.C.

 

Ippolito Rosellini, studioso per amore

In questo giorno nel 1843 morì a Pisa il padre dell’egittologia italiana, Ippolito Rosellini. Per noi al MAF è una figura speciale, perché è grazie a lui che oggi il nostro museo conserva ed espone una delle collezioni egizie più importanti al mondo. Fu proprio Rosellini a convincere il granduca di Toscana Leopoldo II di Lorena a finanziare la spedizione franco-toscana in Egitto e questo servì da sprone al re Carlo X di Francia per accordare lo stesso finanziamento a J-F. Champollion. Ma se già vi abbiamo parlato della famosa spedizione, oggi vorremo scoprire qualcosa di più dell’aspetto privato di Rosellini che tanto lo influenzò anche nei suoi studi.

Niccola Francesco Ippolito Baldassare Rosellini, questo infatti il suo nome completo, nasce il 13 agosto 1800 in una famiglia di commercianti originari di Pescia. Il padre destina subito il figlio primogenito a continuare la sua attività, ma vista l’attitudine allo studio del bambino, muta parere e ne affida l’educazione dapprima alla confraternita dei padri serviti a Pisa, e, al compiere dei 13 anni, a Firenze presso la SS. Annunziata. All’arrivo a Firenze viene affidato alle cure educative di Padre Costantino Battini, con cui instaura un rapporto filiale, arrivando a considerarlo un secondo padre.

Busto di Ippolito Rosellini al MAF.

È per amor suo, più che per amore della materia, che indirizza i suoi studi verso l’antico. Tra i 16 e i 17 anni ritorna a Pisa dove frequenta l’Università sempre sotto la guida del Battini, al quale si aggiunge il cavalier Bagnoli, che lo tengono al riparo dalla tentazione di partecipare alla tumultuosa scena politica italiana del periodo. Il 5 giugno 1821 ottiene la laurea in Teologia e gli viene assegnata, grazie alla raccomandazione del professor Bagnoli, una pensione, una moderna borsa di studio potremmo dire, per lo studio delle lingue orientali in modo da prepararsi alla nomina, quando fosse stato pronto, a professore presso l’Università di Pisa. Dopo aver completato i suoi studi a Bologna, sotto la guida del cardinal Mezzofanti, nel 1824 viene nominato professore di Lingue orientali. Mai momento fu più propizio: nello stesso anno Jean François Champollion aveva pubblicato il suo Resoconto del sistema geroglifico degli antichi Egizi, aprendo l’era dell’egittologia moderna. Rosellini, fresco di nomina e contrastato da qualche opposizione accademica, non può esimersi dall’entrare nel fervido dibattito che il volume scatena in tutta Europa: scrive una breve esposizione della teoria del francese sposandola appieno e da quel momento non pensa più che all’Egitto.

La sintesi di Rosellini che illustrava in italiano il sistema geroglifico di Champollion

Non appena Champollion, che aveva intrapreso un viaggio in Italia per studiare alcune collezioni egizie conservate nel nostro paese, giunge a Livorno, corre a presentarsi ed è allora che scocca la seconda scintilla. Champollion, di dieci anni più vecchio, apprezza l’intervento di Rosellini in suo favore e riconosce al pisano un animo leale e una viva intelligenza, una voglia di apprendere mai sazia che, unita ad una naturale modestia, fanno di lui l’allievo ideale.

jeune homme fort instruit et plein d’ardeur… excellent coeur et tête bien meublée, così Champollion descrive Rosellini al fratello, ammirando in quell’allievo che, ricordiamolo, era già professore, la capacità di rimettersi in gioco e tornare studente per amore della scienza.

Ritratto di Champollion eseguito in Egitto nel 1829 da G. Angelelli (Copertina interna Tributo di riconoscenza e d’amore)

E “allievo-professore” rimane anche nei confronti di Champollion …Fin da quando fummo insieme… facemmo tra noi uno scambio: io gli davo esercizi d’ebraico e ricevevo da lui con doppia usura l’insegnamento del copto… E’ tutto in queste parole del pisano il rapporto tra i due: complementare, ma sempre con quel riguardo alla maggiore esperienza da parte del più giovane Rosellini, che davvero non mancherà mai di esprimere a colui che sempre chiamerà Maestro, amore e riconoscenza.

Rosellini e Champollion aveano ambedue sortito dalla natura una inclinazione speciale allo studio delle cose egiziane, aveano pure ambedue un’anima franca, leale, generosa, quindi per quella segreta legge di natura, che lega le anime temprate all’unisono, e che si occupano dei medesimi studi, non eransi anche veduti e già erano amici.

(Biografia del professore Ippolito Rosellini scritta dal suo discepolo e amico D. Giuseppe Bardelli, Firenze 1843)


Spedizione letteraria franco-toscana, dipinto di Giuseppe Angelelli nel 1830, oggi al MAF.

Da quel momento non si lasciano più. Per i successivi quattro anni Rosellini segue Champollion in tutti i suoi viaggi di studio e in seguito si trasferisce a Parigi. Il loro rapporto muta e diviene paritario a livello scientifico e di fraterna amicizia tra i due uomini. Pur nelle mille insidie e difficoltà, dovute all’organizzazione di una spedizione al servizio di due diversi paesi, la loro mutua fiducia non viene mai meno. Progettano e compiono insieme la spedizione che li rende famosi per poi separarsi temporaneamente agli inizi del 1830, di ritorno dal viaggio in Egitto. Stabiliscono di comune accordo di pubblicare insieme i risultati della spedizione, ma una volta pubblicato il piano dell’opera, che comprendeva 10 volumi, Champollion muore, lasciando sulle spalle di Rosellini tutta la responsabilità di rendere pubbliche le loro scoperte. Il peso della pubblicazione è accompagnato dal profondo dolore per la perdita dell’amico.

Pur sappia il mondo che il dolor mio è pari all’amore e alla riconoscenza che di Te serbo nel petto; e sappia ancora che se i modi mi mancano per esprimerlo, colpa è dell’ingegno che a tanto non vale; ma non già del cuore, che tutta ne comprende la cagione e la forza.

(Tributo di riconoscenza e d’amore reso alla onorata memoria di G.F. Champollion il Minore da Ippolito Rosellini, Pisa 1834)

Due tavole, con reperti oggi conservati al MAF, dai Monumenti dell’Egitto e della Nubia di Rosellini.

Nonostante i continui attacchi da parte di Figeac Champollion, fratello maggiore del Decifratore, e di una parte degli studiosi italiani, Rosellini porta avanti l’immane lavoro e, volume dopo volume, prendono corpo I Monumenti dell’Egitto e della Nubia. La prematura morte di Rosellini interrompe l’opera all’ottavo volume: il nono, già pronto, verrà pubblicato postumo, mentre l’ultimo non vedrà mai la luce.

Animali d’Egitto

Oggi si celebra la Giornata della Natura Selvatica che quest’anno è dedicata alla biodiversità. Nelle nostre collezioni sicuramente la sezione che meglio rispetta questo valore è quella egizia. Come mai abbiamo così tante rappresentazioni dei più svariati animali proprio nell’antico Egitto?

Sicuramente per l’importante significato religioso attribuito loro. Tutte le divinità egizie, infatti, potevano presentarsi sotto due aspetti: uno umano e l’altro animale (Per approfondire vedi qui). Anche quando sono rappresentati in forma umana, spesso mantengono alcune caratteristiche o l’intera testa del loro corrispettivo animale. Un po’ come la clava serve a identificare Eracle nel mondo greco, così la testa di sciacallo identifica Anubi e quella di ibis invece Thot.

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Il dio Thot (fonte)
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Il dio Anubi (fonte)

Proprio per questo molti animali erano considerati sacri e venerati. Oggi conosciamo moltissime mummie animali ed esistevano anche appositi cimiteri per animali, come tori, gatti e coccodrilli, posti sotto la protezione rispettivamente di Apis, Bastet e Sobek. 

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Ippopotamo in fayence, Medio Regno (2065-1718 a.C.)

Probabilmente i primi animali che ci vengono in mente pensando all’arte egizia sono gli ippopotami e i gatti, ma gli Egizi erano attenti osservatori della natura. Moltissimi dei geroglifici rappresentano in modo molto accurato mammiferi, ma anche rettili, insetti o uccelli di ogni genere, ciascuno chiaramente distinguibile.

Basti pensare che per simboleggiare il dio Ra era stato scelto lo scarabeo stercorario, probabilmente perché i movimenti che faceva per trasportare lo sterco che usava come nutrimento, conformato come una pallina, ricordavano agli Egizi i movimenti del dio che invece muoveva il sole.

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Scarabei del cuore, Nuovo Regno (1550-1069 a.C.)

Ma gli animali erano molto presenti anche nella vita profana sia come fonte di nutrimento che come animali da compagnia.

In questo bassorilievo di età amarniana (le linee diagonali che vedete in foto sono la rappresentazione tipica dell’epoca dei raggi del sole) vediamo un allevamento di volatili. Nel dettaglio in basso si intravede una sorta di vasca a gradini, mentre in alto si affacciano sul cortile pieno di animali una serie di stanzette adibite a magazzini. Nella prima però si vede abbastanza chiaramente un uomo che sta nutrendo a forza un volatile tenendolo ben stretto.

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Dettagli di bassorilievo con allevamento di volatili, Nuovo Regno, XVIII dinastia, Regno di Akhenaton 1350-1333 a.C.)

 

Più tranquille invece, le scene domestiche. Accanto al gatto che attende pazientemente composto al di sotto della sedia della sua padrona, troviamo anche un animale da compagnia più insolito… nientemeno che un babbuino!

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Dettaglio di bassorilievo del Nuovo Regno (1550-1069 a.C.) a sinistra; a destra stele della XVIII dinastia (1550-1291 a.C.)

C’è da notare che probabilmente era un compagno per tipi più avventurosi: per starsene tranquillo al suo posto, infatti, ha bisogno di essere trattenuto da un cinturino in vita e di un prelibato spuntino. Che differenza con il regale atteggiamento del gatto!

Questioni di genere nel mondo antico

Quanto può essere attuale l’antichità? Oggi, in occasione della Giornata internazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, vi parliamo di alcune figure del mito non troppo conosciute, eppure affascinanti ed eccezionalmente moderne nella loro complessità. La singolarità delle storie di questi personaggi sta nel mutamento di sesso nel corso della loro vita.

Racconta il mito che Cenide, una fanciulla lapita, dopo aver subito, impotente, l’amore di Poseidone, chiese al dio come “indennizzo” di essere trasformata in un guerriero invulnerabile.

Cenide divenne così Ceneo, un guerriero fortissimo che guidò il popolo dei Lapiti in molte battaglie. Nella lotta che si scatenò tra Centauri e Lapiti durante il matrimonio di Piritoo, re di questi ultimi, i centauri si accanirono contro di lui; non potendo ferirlo, per ucciderlo lo seppellirono sotto una pila di massi o di tronchi d’albero, conficcandolo nel terreno per soffocarlo. È proprio questa la scena che vediamo rappresentata sul fregio che corre sul collo del vaso François, sul lato posteriore, dove si vede un guerriero che emerge per metà dal terreno circondato dalle ferine creature armate di tronchi e grosse pietre.

Secondo quanto raccontato da Ovidio un uccello dalle ali splendenti sarebbe poi volato via da sotto la catasta di alberi (Metamorfosi, XII); secondo Virgilio, la sua anima nell’aldilà avrebbe riassunto sembianze femminili (Eneide, VI, 447-449).

Nel mondo antico dunque la riassegnazione di sesso non è sconosciuta, come si potrebbe pensare; ma, a differenza del travestimento, che è ben noto in numerosi rituali, soprattutto in quelli di passaggio, può avvenire soltanto nei racconti mitologici, grazie all’intervento degli dei.

Accadde così per Tiresia, l’indovino tebano che, per volere divino, nella sua vita sperimentò sia le sembianze maschili che quelle femminili. Nel suo caso tuttavia la trasformazione non sarebbe stata una ricompensa, ma una punizione: avendo visto nel bosco due serpenti uniti nell’amplesso, ne uccise la femmina colpito dal disgusto, e fu trasformato in donna; quando assité una seconda volta alla scena, da donna, uccise il serpente maschio e fu tramutato nuovamente in uomo.

Una delle poche rappresentazioni note dell’indovino tebano Tiresia, su un cratere lucano del Pittore di Dolone conservato alla Bibliothèque Nationale de France (fonte).

Chiamato poi a dirimere una contesa tra Era e Zeus, su chi, tra maschi e femmine, traesse più piacere dall’atto sessuale, rispose indicando la donna, svelando così un segreto che la dea teneva ben nascosto. Per ripicca Era lo rese dunque cieco, e Zeus, per compensazione, lo rese veggente.

Un caso ben diverso, da non confondere con la riassegnazione del sesso, è invece quello di Ermafrodito, che insieme è sia maschio che femmina. Secondo il mito raccontato da Ovidio Ermafrodito era il figlio bellissimo di Ermes e Afrodite (da cui il suo nome), amato dalla ninfa Salmace, che chiese agli dei di non essere disgiunta più dal suo amato. Fu esaudita, e gli dei trasformarono i due in un’unica creatura che aveva sia caratteri maschili che femminili. Al MAF è esposto un bronzetto di epoca romana raffigurante il dio in piedi, in origine ritratto forse nell’atto di specchiarsi; oltre ad essere caratterizzato dalla compresenza di attributi maschili e femminili, presenta anche una differente caratterizzazione della struttura fisica, più massiccia nel lato posteriore e più molle e delicata in quello anteriore. In origine la scultura svolgeva probabilmente la funzione di sostegno di un candelabro.

A ben vedere, il mondo antico non è dunque quella realtà fredda e distante che viene spontaneo relegare tra le pagine di manuali muffiti: la sua vivida umanità esce ancora oggi con forza dai reperti archeologici e dalle parole delle fonti, azzerando in modo sorprendente la distanza di secoli e chilometri.

E i Kidpass days? Diventano digitali!

Per i giorni 9 e 10 maggio era previsto che il MAF aderisse ai Kidpass Days con iniziative dedicate ai bambini e alle famiglie. Anche se purtroppo non sarà possibile organizzarli come evento all’interno del museo, l’appuntamento resta con una serie di iniziative digitali promosse da tutti i musei aderenti.

Sabato 9 maggio, alle 9 in punto, vi aspettiamo tutti per la messa online di due video con il racconto illustrato di due delle più affascinanti storie della mitologia greca, ispirate naturalmente ai capolavori contenuti nel museo.

Tutti conoscono la Chimera di Arezzo, presente persino sul logo del MAF: ma sapete qual è la sua storia? E chi sono Pegaso e Bellerofonte? E perché gli uomini non devono mai sentirsi superiori agli dei? Basterà un click per essere catapultati nell’antica Grecia…

 

Chimere più e meno famose del MAF: la grande scultura da Arezzo, un bronzetto dalla stipe votiva rinvenuta proprio vicino alla grande chimera, un intaglio con Bellerofonte e Pegaso che affrontano il mostro

E la storia della mela d’oro? Tante illustrazioni sui vasi del museo (primo tra tutti il vaso François) raccontano le vicende di Paride principe troiano, gli alterchi tra gli dei litigiosi in cima all’Olimpo e la decennale guerra di Troia. Questa buffa versione sarà il nostro omaggio per i visitatori più piccini, che in questo momento non possono venire fisicamente a trovarci.

Anfora e piatto a vernice nera con le tre dee che si contendono la mela, Ermes e Paride da???? data

Il 9 maggio munitevi quindi di un computer, tablet o smartphone; mettetevi comodi seduti in poltrona, abbracciate un cuscino o il vostro gatto e ascoltate: il MAF racconta per voi!

Vi aspettiamo sulla pagina MAFtv, e sulla nostra pagina Facebook.

Earth day… o Geb day?

Se gli antichi egizi avessero celebrato la #giornatadellaterra, certamente oggi avrebbero onorato il dio Geb!

Geb, la terra, è figlio di Tefnut, l’umidità, e Shu, l’aria secca; sposò sua sorella Nut, il cielo, dalla quale ebbe quattro figli – Osiride, Iside, Seth e Nefti.

Sarcofago di una anonima cantatrice di Amon, XXI dinastia (1069-945 a.C.), esposto al MAF

La tradizione cosmogonica è piuttosto complicata: esistono più versioni dei miti, strettamente legate alle città in cui vennero elaborate. Nella cosmogonia di Eliopoli (corrispondente alla città odierna del Cairo) il demiurgo (il sole) generò una prima coppia di divinità, l’aria secca Shu e l’aria umida Tefnut, da cui nacquero Geb e Nut, separate da Shu che si interpose tra loro. Diversi sono i miti di Ermopoli o di Menfi. Nell’iconografia legata alla cosmologia eliopolitana Geb è solitamente raffigurato disteso a terra, sormontato da Shu che sostiene Nut inarcata su di lui. Nell’antico Egitto il modo di rappresentare gli elementi del cosmo era prettamente figurativo: il cielo era una vacca o una donna piegata ad arco, che toccava la terra con le mani e i piedi; il sole lo attraversava, partorito ogni giorno dalla vacca o dalla donna celeste.​

Papiro greenfield, al british Museum (fonte)

Geb talvolta viene raffigurato con un’oca sulla testa, che corrisponde al geroglifico del suo nome (Geb infatti è chiamato il “Grande starnazzatore”!); l’oca è un simbolo di prosperità, tanto che la successione di un nuovo faraone veniva annunciata dalla liberazione di quattro oche, come augurio di un regno lungo e prospero. Il geroglifico riprodotto nell’immagine si legge infatti Geb, ma anche Aped, oca.

 

Le “Oche di Meidum”, un dipinto parietale dalla mastaba di Nefermaat e Itet, Antico Regno (conservate al Museo del Cairo). Le oche grigie e rosse, due su sei, sono proprio l’oca raffigurata nel geroglifico “geb” o “aped”, mentre le altre quattro sono quelle utilizzate in un altro geroglifico. Questo dipinto, per il suo eccellente stato di conservazione, è stato anche definito “Egypt’s Mona Lisa”.

Con il passare del tempo, il nome del dio venne associato sempre più spesso alla Valle, terra abitabile dell’Egitto, e quindi alla vegetazione, alla fertilità, al dominio sugli animali.  Proprio per la stretta connessione con l’elemento vegetale, Geb viene raffigurato talvolta coperto di piante e frutti o con la pelle verde o nera, il colore della terra fertile del Nilo (in geroglifico Kemet, che è anche il nome con cui gli Egizi chiamavano il loro territorio). Geb governò il mondo antico, ricco e fecondo, fin quando si stancò di regnare; allora il suo posto venne preso dai suoi figli litigiosi Osiride e Seth. Geb venne associato anche al mondo degli inferi, la Duat, in quanto si credeva che intrappolasse le anime per impedire loro di ascendere al cielo, nei campi Iaru.

 

Un miracolo al MAF

Per festeggiare la più importate festa cristiana e augurarvi una Serena Pasqua vi raccontiamo oggi uno dei papiri della nostra ricca collezione, formatasi in larga misura grazie alla generosa donazione voluta dal senatore Girolamo Vitelli, insigne grecista e primo direttore dell’Istituto Papirologico fiorentino che ancora oggi porta il suo nome.

Il papiro, il cui nome per gli addetti ai lavori è PSI VIII 920, è più noto come il papiro della tempesta sedata. Si tratta di un contratto di affitto di un terreno scritto in greco e databile al VI sec. d.C.. Probabilmente faceva parte dell’archivio della famiglia degli Apioni, una delle più importanti dell’Egitto tardoantico, che aveva le sue proprietà soprattutto nell’area di Ossirinco. Questo ci fornisce anche un interessante indizio sulla provenienza del papiro, sconosciuta, dal momento che il papiro era stato acquistato sul mercato antiquario egiziano da un membro della “Società Italiana per la ricerca dei papiri greci e latini in Egitto”, Guido Gentili.

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la tempesta?

La parte più rilevante, come spesso accade, è dietro! Il retro del papiro (il  verso per gli studiosi, che invece indicano il fronte con la parola recto), infatti, ospita l’unica raffigurazione conosciuta su papiro di uno dei miracoli di Gesù presso il mar di Galilea, quello della tempesta sedata.

L’episodio, raccontato nei Vangeli di Matteo, Marco e Luca (Mt 8, 23-27; Mc 4, 35-41; Lc 8, 22-25), fa parte dei miracoli compiuti da Gesù nei pressi del lago di Tiberiade, spesso oscurato dalla più nota pesca miracolosa o dal salvataggio di Pietro dalle acque.

Gesù salì sulla barca e i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco si sollevò in mare una così gran burrasca, che la barca era coperta dalle onde; ma Gesù dormiva. E i suoi discepoli, avvicinatisi, lo svegliarono dicendo: «Signore, salvaci, siamo perduti!» Ed egli disse loro: «Perché avete paura, o gente di poca fede?» Allora, alzatosi, sgridò i venti e il mare, e si fece gran bonaccia. E quegli uomini si meravigliarono e dicevano: «Che uomo è mai questo che anche i venti e il mare gli ubbidiscono?»

(Vangelo di Matteo 8, 23-27, edizione Nuova Riveduta CEI)

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Gesù è a poppa e si sorregge la testa con la mano, gesto che segnala il suo essere addormentato. Dall’altro lato della barca sono raggruppati nove discepoli, tre in primo piano con altri sei alle spalle. Quello più vicino a Gesù solleva una mano, fa il gesto della parola, la rappresentazione grafica della preghiera che i nove rivolgono al Salvatore, alcuni degli altri allargano le braccia per lo spavento, tutti rivolgono lo sguardo alla figura addormentata. All’estrema sinistra due figure più piccole di incerta identificazione, nella quali sarebbe possibile riconoscere, in una suggestiva interpretazione, il vento e il mare fatti persona, sgridati da Gesù.

Il papiro fa parte di una serie di “fogli di bottega”, un bozzetto, preliminare, uno schizzo insomma che doveva servire per preparare una raffigurazione più grande, serie di cui fa parte anche un altro papiro del MAF, quello di Amore e Psiche.

 

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Chiesa di San Giorgio, Oberzell, Reichenau, Affresco della navata centrale e disegno ricostruttivo (Fonte: Academia.edu)

Come tale costituisce un’importante testimonianza dello stretto legame delle arti minori , come la miniatura, con l’arte monumentale degli edifici di culto. Il tema della tempesta sedata, infatti, è al centro di numerosi cicli decorativi presenti in tutta Europa fino all’Alto medioevo; il nostro papiro, dunque, dà un importante contributo per ricostruire le perdute decorazioni delle basiliche paleocristiane.

Con la storia di questo miracolo il MAF Vi augura una Serena Pasqua!

Alle terme di Florentia nella giornata mondiale dell’acqua

Due vicoli stretti e piuttosto bui alle spalle del centro più lussuoso e turistico di Firenze, vicinissimi a piazza della Repubblica: ecco cosa sono oggi via delle Terme e via di Capaccio. Eppure sono luoghi in cui ricercare la storia più antica della città, soprattutto nel giorno in cui si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua.

Le terme romane immaginate da L. Alma Tadema (fonte)

Il cittadino che nel I sec. d.C., infatti, avesse voluto recarsi alle terme per curare la propria igiene personale o per incontrare amici e parlare di affari, sarebbe arrivato proprio in questo punto di Florentia, dove l’acquedotto proveniente dai rilievi a nord ovest della città terminava la sua corsa (il caput acquae, appunto, di cui è rimasta traccia ancora nel termine Capaccio). In questa zona gli scavi condotti nell’immediato dopoguerra a seguito delle distruzioni nell’area del Ponte Vecchio misero in luce un settore delle terme edificate intorno ai primi decenni del II secolo d.C., con pavimenti a mosaico e in opus sectile ed elementi di decorazione architettonica e statuaria; l’area era già precedentemente urbanizzata, come dimostrano alcuni pavimenti in cementizio rinvenuti al di sotto delle strutture di II secolo.

Le terme capitoline disegnate nelle cartoline di Corinto Corinti, architetto che illustrò gli scavi della Firenze Romana (fonte)

Florentia era dotata di altri due grandi edifici termali pubblici: uno nella zona del foro, dove sorgeva anche il Capitolium (il tempio di Giove, Giunone e Minerva che contraddistingueva tutte le città romane), che in età adrianea arrivò a coprire un’area complessiva di 2400 mq, e uno sotto Piazza della Signoria, sempre di età adrianea, che costituiva il corpo centrale di un più articolato complesso che prevedeva anche una fullonica (impianto per la tintura delle stoffe) e una grande latrina.

Le terme presso la porta contra Aquilonem, ancora illustrate da Corinto Corinti (fonte)

Resti di un altri edifici termali, più piccoli e forse probabilmente privati, sono stati rinvenuti sotto la torre della Pagliazza, dietro via de’ Calzaioli, e presso la porta contra Aquilonem (nell’area del Battistero). Ma come era fatto un edificio termale?

Indipendentemente dalla pianta dell’edificio, che in età imperiale è per lo più assiale e simmetrica, le terme non potevano prescindere dai loro tre ambienti principali: il calidarium, il tepidarium e il frigidarium; spesso c’era anche una stanzetta riscaldata da un braciere e destinata ai bagni di sudore, il laconicum. Le stanze corrispondevano a tre momenti diversi all’interno del percorso termale: il bagno nelle vasche di acqua calda, il passaggio in un ambiente riscaldato di transizione, e infine la grande piscina di acqua fredda, all’aperto.

Resti architettonici e di una vasca delle terme capitoline conservati nel Cortile dei Fiorentini al MAF

Il sistema di riscaldamenteo, chiamato ipocausto, era perfettamente funzionale: gli ambienti caldi avevano un pavimento sopraelevato su colonnine (le suspensurae) sotto il quale correva aria calda, proveviente da un’imbocattura (paefurnium) alimentata continuamente a legna. Anche le pareti erano riscaldate con un sistema simile: un’intercapedine tra il muro e l’intonaco consentiva infatti la circolazione dell’aria calda proveniente da sotto il pavimento.

Plastico ricostruttivo del sistema di riscaldamento del calidarium delle terme

Più gli edifici erano estesi, maggiore era il numero delle stanze accessorie, destinate ai massaggi, alle depilazioni, alle saune. Alle terme si recavano sia uomini che donne (divisi in momenti diversi del giorno, se l’edificio non aveva una distinzione interna tra parte maschile e parte femminile), appartenenti a qualunque ceto sociale: l’ingresso ai bagni pubblici era gratuito o al massimo poteva costare un prezzo simbolico, meno di una pagnotta o di un litro di vino. I cittadini si recavano alle terme non solo per lavarsi, ma anche per fare sport (molto in voga era il gioco con la palla) o studiare nelle biblioteche che spesso sorgevano come annessi degli edifici.

Il rilievo con la personificazione del fiume Arno (fonte)

Proprio vicino alle terme centrali di Florentia, sotto l’odierno edificio dell’ex Gambrinus, si trovava anche un’altro importante monumento legato all’approvvigionamento idrico della città: un pozzo sotterraneo lungo 12 metri e largo 2,30, a cui si accedeva scendendo una scala in pietra con diciannove gradini. Al suo interno fu ritrovata una stele a bassorilievo di una divinità fluviale, probabilmente proprio la personificazione del Fiume Arno le cui acque davano alimento perenne al pozzo.

Un 8 marzo da Amazzone!

Tra le molte figure femminili che popolano il nostro Museo, abbiamo scelto le Amazzoni per celebrare questo 8 marzo. Donne, senza dubbio, che hanno avuto nell’immaginario greco un ruolo da protagoniste, di volta in volta temute, disprezzate, desiderate.

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Bronzetto, copia dell’Amazzone ferita di Policleto, II sec. d.C.

All’interno di una società che oggi possiamo definire certamente e profondamente maschilista (basti pensare al fatto che la donna non era considerata soggetto di diritti legali, ed era quindi sottoposta alla tutela di un uomo per tutta la sua vita), le Amazzoni costituiscono uno degli esempi più fulgidi della rappresentazione del diverso.

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Cratere a volute apulo del Pittore di Baltimora, 330 a.C., particolare del collo

I Greci descrivono le Amazzoni come una società esclusivamente femminile di donne guerriere, indipendenti, libere e autogestite. Un’interpretazione etimologica del nome, ancora dubbia in realtà e non confermata dalle rappresentazioni iconografiche, fa riferimento al fatto che si amputassero o bruciassero ancora bambine il seno destro, per poter meglio tendere l’arco e rafforzare la muscolatura del braccio armato. Quel che è certo è che facevano della lotta a cavallo il loro punto di forza in battaglia, tanto è vero che nel linguaggio comune ancora oggi un’amazzone è una provetta cavallerizza.

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Sarcofago delle Amazzoni, Fine del IV sec. a.C.

Le fonti, da Omero a Strabone, passando per Esiodo e Eschilo, le collocano variamente nelle aree intorno al Mar Nero dal Caucaso alla penisola anatolica, sicuramente in un luogo ai confini della civiltà, che rispecchia le caratteristiche delle Amazzoni che sono il contrario di tutto quello che una donna greca “per bene” doveva essere. Proprio per questo molti eroi si trovano a fronteggiarle, e in queste battaglie i greci rivedevano le proprie, riconoscendo il loro sforzo civilizzatore nei confronti degli altri, dei diversi, degli stranieri: in una parola dei barbari, portatori invece del caos.

Alcune tra le più famose regine delle Amazzoni affrontano i più grandi eroi greci, in scontri che stanno in bilico tra l’odio e l’amore.

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Anfora con Eracle e Ippolita, conservata al MAF

La nona delle dodici fatiche di Eracle impone all’eroe di conquistare il cinto della regina Ippolita. Teseo accompagna Eracle in questa avventura e entrambi conquistano, secondo alcune fonti con la violenza, secondo altre con l’amore, due regine delle Amazzoni: Ippolita e Antiope. Eracle finisce con l’uccidere Ippolita, convinto che lei stia tradendo la promessa fatta di consegnargli la cintura, mentre Teseo porta Antiope a Atene ed ha da lei un figlio, chiamato Ippolito, cui Euripide dedicò una tragedia.

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Anfora a figure nere di Exekias con Achille e Pentesilea conservata al British Museum, 530-525 a.C., fonte

Il più iconico duello, però, resta quello di Achille e Pentesilea, che combattono nei due schieramenti opposti nella guerra di Troia. Pentesilea combatte coperta da un’armatura e grazie al suo valore risolleva momentaneamente le sorti dei Troiani e per questo viene sfidata da Achille. Durante il duello Achille non conosce l’identità del suo avversario e solo nel momento del colpo mortale incrocia gli occhi di Pentesilea e se ne innamora, scoprendo solo in quel momento di aver combattuto contro la regina delle Amazzoni. In virtù del suo amore, Achille restituisce ai Troiani il corpo di Pentesilea perchè possano darle degna sepoltura.

Chiudiamo questa galoppata (è proprio il caso di dirlo!) tra le Amazzoni con una curiosità: le Amazzoni, al pari di tutte le altre figure femminili, umane e animali, sono rappresentate sui vasi attici sempre con il tipico incarnato bianco, dovuto al confino in ambienti chiusi, cui le donne normalmente erano sottoposte, a riprova del fatto che, nonostante tutte le loro aberrazioni e le loro pretese di libertà, sempre donne rimangono agli occhi dei pittori ateniesi.

Martedì grasso: ecco la nostra… “sfilata”!

O Fallo, Fallo,

Se bevi con noi, alla mattina, dopo la sbornia,

tracannerai una coppa di pace!

Lo scudo rimarrà appeso sopra il camino.

(Aristofane, Acarnesi, 276-279)

Mimetizzata con nonchalanche tra tante altre kylikes (coppe) attiche in una vetrina al secondo piano del MAF ce n’è una, a figure nere, piccolina e apparentemente anonima. A guardarla bene, però, non può non suscitare un sorriso: su entrambi i lati gruppi di uomini portano in processione un enorme fallo pieno di occhi. Sul lato principale il fallo è issato su un supporto portato a spalla da un gruppo di uomini, e nonostante la sua forma inequivocabile, termina con una testa equina con tanto di orecchie, redini e ornamenti. A cavalcioni del fallo sta un enorme satiro, a sua volta cavalcato da una figuretta che suona il corno e lo sprona con un frustino.

Sull’altro lato la scena è più o meno la stessa; sul supporto, sopra il fallo, c’è una figura umana enorme e grottesca, con la pancia prominente. In entrambi i lati, sullo sfondo, sono dipinti tralci di vite, a indicare il contesto dionisiaco in cui si svolge la scena.

Dalle fonti sappiamo che ad Atene, nel mese di Poseidon, nel periodo corrispondente a fine dicembre inizi gennaio, si svolgevano le feste Dionisie rurali, nell’ambito delle quali un po’ in tutta l’Attica si tenevano cortei fallici, con grandi simulacri portati in processione (la phallophoria, appunto, da phallos e phero, portare). Il momento culminante della festa è proprio quello in cui il grande simulacro del fallo (dalle sembianze equine per il processo della apotheriosis, la trasformazione in animale che carattrizza le creature dionisiache) viene portato in processione, quello a cui si riferisce il protagonista della commedia di Aristofane sopra citata. Il simulacro sarebbbe stato un tronco di legno con il glande modellato in cuoio o scolpito in legno di fico (particolarmente morbido), come quello che Dioniso avrebbe scolpito da sé, dopo essere risalito dagli Inferi, per utilizzarlo in un rituale mistico.

L. Alma-Tadema, “Una dedica a Bacco” (fonte)

L’origine di queste celebrazioni sarebbe da rintracciare, secondo quanto dice uno scolio* agli stessi versi degli Acarnesi, in una espiazione imposta da Dioniso agli abitanti dell’Attica, che non avrebbero accolto con il dovuto riguardo l’introduzione del suo culto nella regione. Per questo li avrebbe puniti con una malattia, probabilmente il priapismo, per guarire dalla quale avrebbe ordinato di costruire privatamente e pubblicamente grandi falli in suo onore. La coppa del MAF, datata alla metà del VI sec. a.C., è l’unica raffigurazione dipinta per ora nota di queste scene.

La prima edizione italiana de “Gli Acarnesi”, risalente al 1545 (fonte)

Durante il trasporto del simulacro in processione venivano intonati canti e improvvisati scherzi e oscenità; secondo Aristole sarebbe da questi versi che discende niente meno che il genere della commedia. Ad essa sembra rimandare direttamente anche la figura panciuta che sovrasta il fallo nel lato B della coppa: essa somiglia infatti a un comasta, (partecipante agli sfrenati rituali dionisiaci) e al costume del personaggio caratteristico della Commedia Antica, con pancia pronunciata e natiche prominenti.

Con questo approfondimento, così poco serio e al contempo denso di significati storici e antropologici, il MAF vi augura buon Carnevale, e…

“…Chi vuol esser lieto sia!”

* scolio: le note che gli studiosi tardi avevano apposto a margine dei testi della letteratura classica, trascritte poi nei codici medievali, attraverso cui sono giunti fino a noi.