Oggi, quando parliamo di restauro, pensiamo subito alle opere d’arte o oggetti di significativo valore storico danneggiati dal tempo o da eventi sfortunati che hanno bisogno di essere riportati all’originario splendore. Ma c’è un’altra forma di recupero, che oramai la nostra cultura riserva soltanto agli oggetti depositari di un particolare valore affettivo, e che tuttavia nell’antichità (e fino a poche decine di anni or sono) era imposta dalla necessità quotidiana: è l’arte di riaggiustare gli oggetti semplicemente per prolungarne la destinazione d’uso oltre l’accidentale rottura.

Questo “restauro”, più poetico e elevato addirittura a forma d’arte nella cultura giapponese (il kintsugi, che impreziosisce le rotture con l’oro), non è raro nei reperti archeologici: oltre a costituire una preziosa fonte di informazioni sulle abilità tecniche degli antichi, apre per noi inaspettate finestre sulla vita quotidiana dei nostri antenati. Molto comune è, per esempio, trovare vasi già rotti e rimontati in antico, i cui “cocci” sono tenuti insieme con grappe metalliche di piombo o bronzo: il metallo poteva essere colato in apposite scanalature oppure utilizzato sotto forma di sottili lamine tenute insieme da rivetti.

Non sempre i mezzi a disposizione consentivano di restituire la completa funzionalità all’oggetto (non è detto che le suture, per esempio, potessero essere completamente impermeabilizzate con la pece in modo da trattenere anche liquidi): i vasi, tuttavia, potevano continuare ad essere usati come contenitori per solidi o semplicemente far bella mostra delle immagini che ne decoravano il corpo.
Un esempio per tutti? Ma il vaso François, naturalmente! Forse non tutti sanno, infatti, che anche il rex vasorum non fu immune da rotture antiche (oltre che moderne…): qualche incauta mano, forse etrusca, ne provocò il netto distacco delle anse, forse nel tentativo di sollevarlo pieno di vino. Osservandolo nella sua vetrina, si vedono ancora bene i buchini in cui passava il metallo che doveva tenere insieme i pezzi.

Un po’ diverso è il caso delle riparazioni effettuate in corso d’opera, per porre rimedio alle imperfezioni che avrebbero compromesso la realizzazione di un’oggetto a regola d’arte. È il caso delle riparazioni con metallo colato effettuate nell’argilla ancora cruda, che si era crepata in fase di essiccazione (come nei dolia rinvenuti a Diano Marina) o ancora dei tasselli inseriti a coprire piccoli buchini o imperfezioni nelle sculture in bronzo. Al MAF, un esempio formidabile è il torso di Livorno, nel quale si leggono addirittura le tracce di questi interventi in due diversi momenti della storia.
La scultura, infatti, è una copia romana di un originale greco anch’esso di bronzo, effettuata per calco. A confermarcelo sono le impronte dei tasselli originali, che appaiono come piccole toppe in rilievo sulla superficie della scultura, ma che in realtà sono tutt’uno con essa. A queste si aggiungono i tasselli veri, oggi saltati via, che coprivano piccoli fori nella superficie.

Non solo gli oggetti antichi giunti integri fino a noi ci aiutano dunque a ricostruire la storia passata, ma persino le tracce dei piccoli e apparentemente insignificanti eventi quotidiani che portano addosso, se si sanno ascoltare, sono echi lontani del lavoro nelle officine, della vita nelle cucine di una ricca abitazione o ancora su una nave da trasporto.
